Deve risarcire le parti civili, ossia gli eredi del paziente deceduto, la clinica o l’ospedale per la condotta colposa omissiva del proprio operatore sanitario del triage che assegna il codice sbagliato nonostante i sintomi che avrebbero richiesto un codice giallo anziché quello verde per i casi meno urgenti. Non si tratta di una decisione in ambito civile, ma è la terza sezione penale della Cassazione a stabilire il principio in un caso in cui l’infermiere era stato ritenuto responsabile di omicidio colposo di cui all’articolo 589 del codice penale e la struttura sanitaria privata era stata citata quale responabile civile nel processo penale e condannata in solido con la propria dipendente al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, in qualità di eredi della vittima. La sentenza 26922/17, depositata il 30 maggio, in particolare, riguarda la sussistenza della responsabilità solidale della clinica in conseguenza della morte di un paziente per un errato codice assegnato da un’infermiera addetta al triage. La stessa, come detto aveva indicato il codice verde anziché quello giallo, nonostante il paziente lamentasse «dolore toracico atipico, non registrando e quindi non rilevando la sudorazione, il pallore e la dispnea e omettendo di monitorare le variazioni delle condizioni…». Tali indubbie omissioni avevano comportato la morte del malcapitato paziente e la conseguente condanna per omicidio colposo dell’operatrice sanitaria. Nonostante ciò, la casa di cura privata aveva deciso di ricorrere contro la sentenza della Corte di appello di Milano per tutelare la propria posizione di responsabile civile, ma la Cassazione ha rigettato il ricorso. Per i giudici della Suprema Corte, la Corte di merito aveva correttamente sostenuto che l’errata classificazione delle condizioni del paziente in codice verde era «frutto della condotta omissiva imperita e negligente tenuta dall’infermiera che trascurava del tutto di apprezzare le condizioni del paziente, sia all’arrivo in pronto soccorso sia successivamente nella doverosa rivalutazione che si imponeva, in ragione della sintomatologia lamentata rapportata all’età».Corretto anche l’iter di accertamento del nesso causale, che ha portato la corte territoriale a concludere che con un tempestivo intervento, buone sarebbero state le percentuali di sopravvivenza del paziente posto che lo stesso si trovava già al pronto soccorso e, quindi, l’intervento specialistico cardiologico poteva essere garantito con «assoluta tempestività»; da non sottovalutare anche la presenza nella struttura di «metodiche di emodinamica all’avanguardia, sicché sarebbero state immediatamente eseguibili le indagini invasive (coronarografia) e non invasive (ecocardiografia), nonché l’intervento di angioplastica. Gli ermellini evidenziano, infine, che il giudice di merito ha correttamente motivato anche quando ha ritenuto che «dove assicurato un tempestivo intervento al paziente, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo con minore intensità lesiva; in tal modo, ha implicitamente ritenuto che, ove correttamente apprezzate le reali condizioni del paziente presente in pronto soccorso da parte dell’imputata, tale condotta avrebbe avuto, con alta probabilità logica, un ruolo salvifico». Un caso importante, che per Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, s’inserisce nel solco della riforma della “responsabilità sanitaria” che vede definitivamente riconosciuta e cristallizzata a livello normativo e non più solo giurisprudenziale, la responsabilità solidale degli ospedali e case di cura per le condotte dei propri operatori, così come da tempo la nostra associazione continua a sostenere nei numerosi casi in tutto il territorio nazionale.