Ieri sono entrato in una libreria per comprare un libro e, come si suol dire, l’occhio m’è caduto su una scaffalatura piena zeppa di libri sull’ottimismo un tanto al chilo.
Libri dai titoli altisonanti che hanno l’ardire di spiegare in qualche decina di pagine come diventare imprenditori di successo, come vendere efficacemente, ecc. ecc. Quelli che mi fanno più sorridere sono i libri che parlano dell’essere o diventare imprenditori di se stessi. Una frase, per me, priva di alcun senso, coniata per essere suggestiva pur senza avere un significato reale differente da quello che vuol dire essere imprenditori e basta. L’imprenditore produce o vende beni e servizi. Essere imprenditori di se stessi, quindi, vorrebbe significare vendere se stessi. Così, lì davanti agli scaffali, mi sono domandato: e se avessi frainteso per tutto questo tempo, non capendo che quelli sono libri sull’avviamento alla prostituzione? No, ho sfogliato qualche pagina, ma non è così.
Per come vanno le cose oggi, con la difficoltà che c’è nel difendere ed affermare diritti individuali d’ogni genere – umani, civili, economici, ecc. – il se stessi che questi libri vorrebbero vendessimo è in larga parte un se stesso mal messo, vessato ed avvizzito nel suo interno. Se proprio volessimo cedere ad una suggestione, non sarebbe meglio pensare di diventare sindacalisti di se stessi? Che le organizzazioni sindacali, sì sa, sono in stato confusionale e poco riescono a comprendere e quindi rappresentare le istanze diffuse, finendo spesso nel sostenere battaglie di retroguardia. Impegnarsi e lottare per difendere o affermare qualcosa che si ha, o che si dovrebbe o vorrebbe avere è decisamente meglio che impegnarsi nel vendere “se stessi deteriorati”. Almeno credo.
Alessandro Gallucci, legale, consulente Aduc