Fare l’insegnante significa essere particolarmente esposti al burnout ed incorrere in malattie della sfera psichiatrica ed oncologica, perché oggi più che mai il “lavoro educativo” si è trasformato in un “ambito professionale particolarmente esposto a condizioni stressogene”, soprattutto tra i più docenti più giovani e caratterialmente fragili o emotivi. Sono queste le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori che hanno compiuto un’indagine su larga scala, utilizzando quattro questionari, volti ad indagare diversi ambiti problematici connessi con lo sviluppo della sindrome.
I risultati della ricerca, presentati oggi su Orizzonte Scuola attraverso una sintesi della dottoressa Arianna Ditta, Psicologa e Psicoterapeuta, indicano che bisogna assolutamente “sensibilizzare i docenti sulle malattie professionali alle quali risultano maggiormente esposti (prevalentemente psichiatriche ed oncologiche), sulle caratteristiche d’insorgenza e sui sintomi più comuni, sulle modalità per affrontarle, e sugli strumenti medici, burocratici e legali dei quali servirsi”. A partire dai meno esperti, perché “sono gli insegnanti più giovani, e con meno anni di servizio, a mostrare un maggior livello di depersonalizzazione, ovvero di distanziamento emotivo e relazionale dai propri allievi, spesso per la mancanza di un adeguato sostegno nei momenti di difficoltà, e per lo scollamento tra aspettative e realtà”.
Le indicazioni, peraltro, risultano “in linea con quanto sancito dal D.L. 81/08, circa l’attuazione, da parte dei Dirigenti, delle azioni di prevenzione e monitoraggio dello stress lavoro correlato. D’altro canto, è opportuno sottolineare che i medici facenti parte delle CMV (Commissioni Mediche di Verifica) spesso ignorano le patologie professionali dei docenti, finendo per riammettere in servizio insegnanti con pesanti diagnosi psichiatriche (Lodolo D’Oria, 2017). Dai risultati desunti dallo studio, oltre che da quelli riportati dalla letteratura sull’argomento si rileva, infatti, l’importanza di sostenere la categoria degli insegnanti dall’inizio della carriera fino alla fine”.
Inoltre, continua la psicologa, “lo studio ha permesso di evidenziare che spesso ciò che manca nel lavoro docente è la possibilità di essere sostenuti da una rete (di esperti, di colleghi, etc.), che contribuisca a fornire un supporto sempre presente e disponibile nei momenti di inevitabile difficoltà vissuti a scuola. Ciò appare in linea con quanto emerso in diversi studi nazionali ed internazionali (Gabola e Albanese, 2015; Di Giovanni e Greco, 2015), rispetto alla possibilità di garantire il benessere a lungo termine degli insegnanti”.
I più esposti al rischio burnout risultano, oltre ai più giovani, anche i docenti più emotivi e stanchi, spesso con tanta anzianità lavorativa alle spalle: “un insegnante che presenta alti livelli di esaurimento emotivo e depersonalizzazione sarà anche meno capace di controllare le emozioni, adottando con molta probabilità stili comportamentali incentrati sulla passività, e strategie di coping disfunzionali”. Lo studio ha, infine, evidenziato che un’efficace gestione dello stress e la prevalenza di stili di coping positivi, permettono al docente di sperimentare un benessere globale, rispetto alle diverse dimensioni della sua vita, proteggendolo dal burnout. Ciò pare, però, realizzabile attraverso un attento lavoro di prevenzione e promozione del benessere degli insegnanti, mettendo a punto programmi formativi che tengano conto delle diverse competenze che agli stessi vengono richieste.
“Appare, dunque, prioritario – conclude la dottoressa esperta di prevenzione dalle malattie professionali – il supporto offerto da una rete costituita da risorse dentro e fuori il contesto lavorativo, così come il contenimento e la canalizzazione delle emozioni emergenti nelle situazioni complesse, lo sviluppo nei docenti di ruoli e stili più attivi ed assertivi, ed infine la promozione di un ambiente di lavoro soddisfacente, che possa limitare il divario tra la realtà e le aspettative”.
‘Burnout’ – ricorda sempre oggi un’altra rivista specializzata, Tuttoscuola – è il termine inglese traducibile come ‘bruciato’ o ‘esaurito’ che sta dunque ad indicare una sindrome da esaurimento emotivo causata appunto dallo stress lavorativo. L’esaurimento è la prima reazione allo stress prodotto da eccessive richieste di lavoro o da cambiamenti significativi, ma tale sindrome, rilevano gli esperti, è anche caratterizzata dalla dimensione del cinismo, con un atteggiamento freddo e distaccato nei confronti del lavoro e delle persone che si incontrano sul lavoro. Un atteggiamento così negativo, rilevava la presidentessa dell’Eurodap Paola Vinciguerra, “può compromettere seriamente il benessere di una persona, il suo equilibrio psico-fisico e la sua capacità di lavorare”.
Per chi è affetto da burnout, “gli ambienti lavorativi perdono le caratteristiche di un luogo sicuro dove socializzare, fare squadra, conseguire risultati comuni. Al contrario si assiste a spaccature, nel tentativo di raggiungere traguardi individuali, e la tensione si accumula quotidianamente senza possibilità di soluzione”. Per certe categorie, in primis quella dei piloti, concludeva la presidente, “è quindi fondamentale che si monitorizzi lo stato psicologico, cosa che non viene assolutamente fatta da protocollo, ed è anche necessario insegnare tecniche di gestione dello stress che permettano di non entrare in dimensioni psichiche patologiche”.
“Gli insegnanti – continua Tuttoscuola – non sono certo immuni da questi problemi, anzi. Qualche tempo fa Vittorio Lodolo D’Oria, medico e autore di molti studi sul burnout affermava che “ad ammettere di essere stressato per il lavoro ripetitivo e logorante è un’altissima percentuale di chi lavora dietro la cattedra. Poi ci sono le vere e proprie patologie. E anche in questo caso non c’è da sottovalutare la situazione. Perché dalle ultime rilevazioni risultano almeno 24mila psicotici e 120mila depressi nella categoria. Infine, ci sono tutte le altre malattie della psiche più lievi ma non per questo da trascurare, come i disturbi dell’adattamento e di personalità”. Per gli insegnanti, come si sa, non è previsto alcun controllo né all’inizio della carriera né successivamente. Non è il caso di pensarci? Quei rari casi, anche recenti, di violenze su bambini nelle scuole dell’infanzia da parte di insegnanti anziani non sono forse un campanello d’allarme?”.
Alla luce di queste ulteriori indagini, Anief torna a chiedere un allargamento delle fasce lavorative indicate come più logoranti e quindi da far rientrare la docenza e i lavoratori Ata a supporto, a tutti i livelli, dalla scuola dell’infanzia alle superiori, tra i beneficiari dell’Ape Social: dopo i 60 anni di età, un lavoratore che opera a stretto contatto con bambini e ragazzi in crescita, deve avere la possibilità di scegliere se continuare o andare in pensione. Si tratta di una professione che essendo incentrata sulle relazioni con altri soggetti, che contemporaneamente vanno coordinati pur mostrando spesso atteggiamenti oppositivi, produce un alto grado di stress che alla lunga può sfociare in disturbi se non in patologie.
“Le conclusioni dell’indagine pubblicata oggi – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – non fanno altro che confermare quelle analoghe emerse dallo studio decennale ‘Getsemani Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti’. Anche il personale è cosciente di questo: lo testimonia il successo ottenuto dalla petizione pubblica, promossa nelle scorse settimane dal medico esperto di “stress da lavoro correlato”, il dottor Vittorio Lodolo D’Oria, attraverso cui si chiedevano stipendi adeguati, pensione anticipata e tutela della salute dei docenti. In assoluto, riteniamo che per tutti I lavoratori debba essere adeguata l’uscita dal lavoro all’età media oggi in vigore nei Paesi europei, ovvero 63 anni, e non all’aspettativa di vita. Visto che in Germania un insegnante continua a lasciare il lavoro per il pensionamento dopo circa 25 anni di servizio e in Francia si lascia ancora oggi tra i 60 e i 62 anni”.
“Le statistiche non possono ledere i diritti – continua Pacifico – e chi opera nelle nostre scuole pubbliche è stato molto penalizzato dal nuovo meccanismo pensionistico introdotto con la Legge Fornero, ma già avviato qualche anno prima con la riforma Amato. Tra l’altro, si dice ai lavoratori italiani di andare in pensione a quasi 70 anni di età oppure 43 anni di contributi, percependo nel frattempo stipendi divorati dall’inflazioni e ritoccati ogni dieci anni con aumenti ridicoli, come si sta facendo in questi giorni con la scuola: così si ritroveranno pure con assegni di pensione ridotti perché nel frattempo è stato imposto il sistema contributivo meno vantaggioso”, conclude il sindacalista.