Corte Ue: indagine della Consob per abuso di informazioni privilegiate. L’accusato non deve tenere comportamenti ostruzionistici ma ha diritto al silenzio al fine di non autoincriminarsi (sent C-481/19)…
Tuttavia, il diritto al silenzio non può giustificare qualsiasi mancanza di collaborazione con le autorità competenti, come in caso di rifiuto di presentarsi ad un’audizione o in caso di ricorso a manovre dilatorie
Il 2 maggio 2012, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob) (Italia) ha inflitto a DB alcune sanzioni per un ammontare complessivo di EUR 300 000, per un illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate commesso nel 2009.
Detta commissione ha altresì inflitto al predetto una sanzione di EUR 50 000 per omessa collaborazione. Infatti, DB, dopo aver chiesto, a più riprese, il rinvio della data dell’audizione alla quale era stato convocato nella sua qualità di persona informata dei fatti, aveva rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte allorché si era presentato a tale audizione.
A seguito del rigetto della sua opposizione contro tali sanzioni, DB ha proposto un ricorso per cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia). Il 16 febbraio 2018, tale giudice ha sottoposto alla Corte costituzionale (Italia) una questione di legittimità costituzionale vertente sulla disposizione del diritto italiano in base alla quale è stata inflitta la sanzione per omessa collaborazione. Tale disposizione sanziona la mancata tempestiva ottemperanza alle richieste della Consob o il fatto di ritardare l’esercizio delle funzioni di vigilanza di tale organismo, anche per quanto riguarda la persona alla quale la Consob addebiti un abuso di informazioni privilegiate.
La Corte costituzionale ha sottolineato che, nell’ordinamento italiano, le operazioni configuranti un abuso di informazioni privilegiate costituiscono, al tempo stesso, un illecito amministrativo e un illecito penale. Essa ha poi rilevato che la disposizione in questione è stata adottata in esecuzione di un obbligo specifico imposto dalla direttiva 2003/6 e che essa costituisce attualmente l’attuazione di una disposizione del regolamento n. 596/2014 . Detto giudice ha a questo punto interrogato la Corte in merito alla compatibilità di tali testi normativi con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e, più in particolare, con il diritto di mantenere il silenzio.
La Corte, riunita in Grande Sezione, riconosce l’esistenza, a favore di una persona fisica, di un diritto al silenzio, tutelato dalla Carta , e dichiara che la direttiva 2003/6 e il regolamento n. 596/2014 permettono agli Stati membri di rispettare tale diritto nell’ambito di un’indagine condotta nei confronti di una persona siffatta e suscettibile di portare all’accertamento della sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale ovvero della sua responsabilità penale.
Giudizio della Corte
Alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa al diritto ad un equo processo , la Corte sottolinea che il diritto al silenzio, che è al centro della nozione di «equo processo», osta, in particolare, a che una persona fisica «imputata» venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente, a titolo della direttiva 2003/6 o del regolamento n. 596/2014, risposte che potrebbero far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative a carattere penale oppure la sua responsabilità penale.
La Corte precisa, a questo proposito, che la giurisprudenza relativa all’obbligo per le imprese di fornire, nell’ambito di procedimenti suscettibili di portare all’inflizione di sanzioni per comportamenti anticoncorrenziali, informazioni che potrebbero successivamente essere utilizzate allo scopo di dimostrare la loro responsabilità per tali comportamenti, non può trovare applicazione in via analogica al fine di stabilire la portata del diritto al silenzio di una persona fisica accusata di abuso di informazioni privilegiate.
La Corte aggiunge che il diritto al silenzio non può però giustificare qualsiasi omessa collaborazione della persona interessata con le autorità competenti, come in caso di rifiuto di presentarsi ad unʼaudizione prevista da queste ultime o di manovre dilatorie intese a rinviare lo svolgimento di tale audizione.
La Corte nota, infine, che tanto la direttiva 2003/6 quanto il regolamento n. 596/2014 si prestano ad un’interpretazione conforme al diritto al silenzio, nel senso che essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale. Date tali circostanze, il fatto che nei testi normativi suddetti manchi un’esplicita esclusione dell’inflizione di una sanzione per un rifiuto siffatto non può pregiudicare la loro validità. Incombe agli Stati membri garantire che una persona fisica non possa essere sanzionata per il suo rifiuto di fornire risposte siffatte all’autorità competente.