Sanzionando penalmente l’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di una procedura di protezione internazionale da parte di persone che non soddisfano i criteri nazionali di riconoscimento di tale protezione, l’Ungheria ha violato il diritto dell’Unione
La configurazione come reato di detta attività è in contrasto con l’esercizio dei diritti garantiti dal legislatore dell’Unione in materia di sostegno ai richiedenti protezione internazionale
Nel 2018, l’Ungheria ha modificato determinate leggi in relazione alle misure contro l’immigrazione illegale e ha adottato, in particolare, disposizioni che hanno, da un lato, introdotto un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di asilo e, dall’altro, previsto la configurazione come reato delle attività organizzative dirette ad agevolare l’inoltro di domande di asilo, da parte di persone non aventi diritto all’asilo in forza del diritto ungherese, nonché restrizioni alla libertà di movimento per le persone sospettate di aver commesso un siffatto reato.
Ritenendo che, nell’adottare tali disposizioni, l’Ungheria sia venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza delle direttive «procedure» [1] e «accoglienza» [2], la Commissione europea ha proposto un ricorso per inadempimento dinanzi alla Corte.
La Corte, riunita in Grande Sezione, ha accolto la parte essenziale del ricorso della Commissione.
Giudizio della Corte
Innanzitutto, la Corte ha dichiarato che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva «procedure» [3], consentendo di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è giunto nel suo territorio attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione. Infatti, la direttiva «procedure» [4] elenca tassativamente le situazioni in cui gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile. Orbene, il motivo di inammissibilità introdotto dalla normativa ungherese non corrisponde ad alcuna di tali situazioni [5].
Poi, la Corte dichiara che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza delle direttive «procedure» [6] e «accoglienza» [7], punendo come reato nel suo diritto interno il comportamento di qualsiasi persona che, nell’ambito di un’attività organizzativa, offra un sostegno alla presentazione o all’inoltro di una domanda di asilo nel suo territorio, qualora sia possibile provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tale persona era consapevole del fatto che detta domanda non poteva essere accolta, in forza del succitato diritto.
Per giungere a tale conclusione, la Corte esamina, da un lato, se la normativa ungherese che prevede detto reato costituisca una limitazione dei diritti derivanti dalle direttive «procedure» e «accoglienza» e, dall’altro, se tale limitazione possa essere giustificata alla luce del diritto dell’Unione.
Così, in primo luogo, dopo aver verificato che talune attività di assistenza ai richiedenti protezione internazionale contemplate dalle direttive «procedure» e «accoglienza» rientrano nell’ambito di applicazione della normativa ungherese, la Corte constata che la medesima costituisce una limitazione dei diritti sanciti da dette direttive. Più specificamente, tale normativa limita, da un lato, i diritti di avere accesso ai richiedenti protezione internazionale e di comunicare con questi ultimi [8] e, dall’altro, l’effettività del diritto garantito al richiedente asilo di poter consultare, a proprie spese, un consulente legale o altro consulente [9].
In secondo luogo, la Corte considera che una siffatta limitazione non può essere giustificata dagli obiettivi invocati dal legislatore ungherese, vale a dire la lotta contro il sostegno offerto ai fini del ricorso abusivo alla procedura di asilo e la lotta contro l’immigrazione illegale fondata sull’inganno.
Per quanto riguarda il primo obiettivo, la Corte rileva che la normativa ungherese punisce anche comportamenti che non possono essere considerati pratiche fraudolente o abusive. Infatti, non appena sia possibile provare che la persona interessata era a conoscenza del fatto che l’individuo a cui ella ha offerto sostegno non poteva ottenere lo status di rifugiato in forza del diritto ungherese, qualsiasi sostegno offerto, nell’ambito di un’attività organizzativa, al fine di agevolare la presentazione o l’inoltro di una domanda di asilo, può essere sanzionato penalmente, anche ove tale sostegno sia offerto rispettando le norme procedurali e senza la volontà di indurre materialmente in errore l’autorità accertante.
Dunque, anzitutto, sarebbe perseguibile penalmente chiunque offra sostegno per presentare o inoltrare una domanda di asilo, pur sapendo che tale domanda non può essere accolta alla luce delle norme del diritto ungherese, ma ritenendo che dette norme siano contrarie, segnatamente, al diritto dell’Unione. Pertanto, i richiedenti possono essere privati di un’assistenza che consenta loro di contestare, in una fase successiva della procedura di riconoscimento dell’asilo, la regolarità della normativa nazionale applicabile alla loro situazione alla luce, in particolare, del diritto dell’Unione.
Poi, tale normativa punisce il sostegno offerto a una persona al fine di presentare o inoltrare una domanda di asilo ove la persona in questione non abbia subito persecuzioni e non sia esposta al rischio di persecuzioni in almeno uno Stato attraverso il quale è transitata prima di giungere in Ungheria. Orbene, la direttiva «procedure» osta a che una domanda di asilo sia respinta in quanto inammissibile per un motivo del genere. Pertanto, un siffatto sostegno non può essere, in nessun caso, equiparato a una pratica fraudolenta o abusiva.
[1] Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60) (in prosieguo: la «direttiva “procedure”»).
[2] Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 96) (in prosieguo: la «direttiva “accoglienza”»).
[3] Articolo 33, paragrafo 2, della direttiva «procedure», che elenca le situazioni in cui gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile.
[4] Articolo 33, paragrafo 2, della direttiva «procedure».
[5] V. sentenza del 14 maggio 2020, Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság Dél-alföldi Regionális Igazgatóság (C‑924/19 PPU e C‑925/19 PPU); v. altresì comunicato stampa n. 60/20.
[6] Articolo 8, paragrafo 2, della direttiva «procedure», relativo all’accesso ai richiedenti protezione internazionale da parte delle organizzazioni e delle persone che prestano loro consulenza e assistenza, e articolo 22, paragrafo 1, di tale direttiva, relativo al diritto all’assistenza e alla rappresentanza legali in ogni fase della procedura.
[7] Articolo 10, paragrafo 4, della direttiva «accoglienza», relativo all’accesso al centro di trattenimento, in particolare, da parte di avvocati o consulenti legali o da parte di rappresentanti di organizzazioni non governative.
[8] Tali diritti sono riconosciuti alle persone o alle organizzazioni che prestano assistenza ai richiedenti protezione internazionale dall’articolo 8, paragrafo 2, della direttiva «procedure» e dall’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva «accoglienza».
[9] Tale diritto è garantito dall’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva «procedure».
Infine, nei limiti in cui essa non esclude che una persona sia sanzionata penalmente non appena sia concretamente dimostrabile che la medesima non poteva ignorare che il richiedente a cui ha offerto sostegno non soddisfaceva le condizioni per ottenere asilo, la Corte rileva che tale normativa impone alle persone che intendano offrire un sostegno del genere di esaminare, sin dalla presentazione o dall’inoltro della domanda, se detta domanda sia idonea ad essere accolta in forza del diritto ungherese. Orbene, da un lato, non ci si può attendere un simile controllo da parte di dette persone, tanto più che i richiedenti possono avere difficoltà a far valere, sin da tale fase, gli elementi pertinenti che consentano loro di ottenere lo status di rifugiato. Dall’altro lato, il rischio, per le persone interessate, di essere esposte a una sanzione penale particolarmente severa, ossia la privazione della libertà, per il solo motivo che le medesime non potevano ignorare che la domanda di asilo era destinata all’insuccesso, rende incerta la legittimità di qualsiasi sostegno finalizzato a consentire l’espletamento di queste due fasi essenziali della procedura di riconoscimento dell’asilo. La normativa in parola può dunque dissuadere fortemente chiunque intenda offrire sostegno in tali fasi della procedura, anche qualora tale assistenza miri unicamente a consentire al cittadino di un paese terzo di esercitare il suo diritto fondamentale di richiedere asilo in uno Stato membro, ed eccede quanto necessario per conseguire l’obiettivo della lotta contro le pratiche fraudolente o abusive.
Per quanto riguarda il secondo obiettivo perseguito dalla normativa ungherese, la Corte constata che la prestazione di assistenza al fine di presentare o inoltrare una domanda di asilo in uno Stato membro non può essere considerata un’attività che facilita l’ingresso o il soggiorno irregolari di un cittadino di un paese terzo in detto Stato membro, cosicché la configurazione come reato istituita dalla normativa ungherese non costituisce una misura idonea a perseguire un siffatto obiettivo.
Da ultimo, la Corte dichiara che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza delle direttive «procedure» [1] e «accoglienza» [2] privando del diritto di avvicinarsi alle sue frontiere esterne qualsiasi persona sospettata di aver offerto, nell’ambito di un’attività organizzativa, un sostegno alla presentazione o all’inoltro di una domanda di asilo nel suo territorio, qualora sia possibile provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tale persona era consapevole del fatto che detta domanda non poteva essere accolta. La normativa in parola restringe i diritti garantiti dalle summenzionate direttive, nei limiti in cui la persona interessata, offrendo sostegno nelle suddette circostanze, è sospettata di aver commesso un reato, nonostante la configurazione come reato di tale comportamento sia contraria al diritto dell’Unione. Ne consegue che una siffatta limitazione non può essere ragionevolmente giustificata in considerazione del medesimo diritto.
[1] Articolo 8, paragrafo 2, articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e articolo 22, paragrafo 1, della direttiva «procedure».
[2] Articolo 10, paragrafo 4, della direttiva «accoglienza».