La Corte respinge i ricorsi di annullamento presentati dall’Ungheria e dalla Polonia contro la direttiva che rafforza i diritti dei lavoratori distaccati.
Tenuto conto, in particolare, dell’evoluzione del mercato interno conseguente agli allargamenti dell’Unione che si sono succeduti, il legislatore dell’Unione poteva procedere a una rivalutazione degli interessi delle imprese che beneficiano della libera prestazione dei servizi e di quelli dei loro lavoratori distaccati in uno Stato membro ospitante, al fine di garantire che tale libera prestazione si realizzasse in condizioni di concorrenza eque tra tali imprese e quelle stabilite in detto Stato membro
La direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi[1] è stata in parte modificata dalla direttiva (UE) 2018/957[2]. Adottando quest’ultima, il legislatore dell’Unione ha cercato di assicurare la libera prestazione dei servizi su base equa, garantendo una concorrenza che non sia fondata sull’applicazione, in uno stesso Stato membro, di condizioni di lavoro e di occupazione di livello sostanzialmente diverso a seconda che il datore di lavoro sia o no stabilito in tale Stato membro, e offrendo al contempo una maggiore tutela ai lavoratori distaccati. A tal fine, la direttiva 2018/957 mira a rendere le condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori distaccati le più vicine possibili a quelle dei lavoratori impiegati da imprese stabilite nello Stato membro ospitante.
In tale logica, la direttiva 2018/957 ha, in particolare, apportato modifiche all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 96/71, relativo alle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori distaccati. Tali modifiche, ispirate al principio della parità di trattamento, implicano in particolare che a tali lavoratori non si applichino più le «tariffe minime salariali» fissate dalla legislazione dello Stato membro ospitante, bensì la «retribuzione» prevista da tale legislazione, nozione più ampia di quella di «salario minimo». Inoltre, nel caso in cui la durata effettiva di un distacco sia superiore a dodici mesi o, eccezionalmente, a diciotto mesi, la direttiva 2018/957 ha imposto, mediante l’inserimento di un articolo 3, paragrafo 1 bis, nella direttiva 96/71, l’applicazione della quasi totalità delle condizioni di lavoro e di occupazione dello Stato membro ospitante.
L’Ungheria (causa C‑620/18) e la Polonia (causa C‑626/18) hanno presentato ciascuna un ricorso diretto all’annullamento della direttiva 2018/957. Tali Stati membri hanno dedotto in particolare motivi vertenti sulla scelta di una base giuridica errata per l’adozione di tale direttiva, sulla violazione dell’articolo 56 TFUE, che garantisce la libera prestazione dei servizi, e sulla violazione del regolamento «Roma I»[3]. Con le sue odierne sentenze, la Corte respinge i due ricorsi nel loro complesso.
Giudizio della Corte
In primo luogo, la Corte rileva che il legislatore dell’Unione poteva fondarsi, al momento dell’adozione della direttiva 2018/957, sulla stessa base giuridica utilizzata per adottare la direttiva 96/71, ossia l’articolo 53, paragrafo 1, e l’articolo 62 TFUE[4], i quali consentono in particolare di adottare direttive intese a facilitare l’esercizio della libertà di prestazione dei servizi.
Infatti, nel caso di una normativa che, come la direttiva 2018/957, modifica una normativa esistente, occorre, per individuare la base giuridica adeguata, tener conto della normativa esistente che essa modifica e, in particolare, del suo obiettivo e del suo contenuto. Inoltre, allorché un atto legislativo ha già coordinato le legislazioni degli Stati membri in un determinato settore di azione dell’Unione, il legislatore dell’Unione non può essere privato della possibilità di adeguare tale atto a qualsiasi cambiamento delle circostanze o a qualsiasi evoluzione delle conoscenze. La Corte si riferisce, a tale riguardo, agli allargamenti dell’Unione che si sono succeduti dall’entrata in vigore della direttiva 96/71, nonché a una valutazione d’impatto elaborata nell’ambito della modifica di tale direttiva. In tale valutazione si constata che la direttiva 96/71 era stata all’origine di una disparità di condizioni tra imprese stabilite in uno Stato membro ospitante e imprese che distaccavano lavoratori in tale Stato membro, nonché di una segmentazione del mercato del lavoro, per via di una differenziazione strutturale delle norme salariali applicabili ai loro rispettivi lavoratori[5].
La Corte rileva che il fatto che l’articolo 53, paragrafo 1, e l’articolo 62 TFUE autorizzino il legislatore dell’Unione a coordinare le normative nazionali che, per via della loro stessa disparità, possono ostacolare la libera prestazione dei servizi tra gli Stati membri non può implicare che tale legislatore non debba altresì garantire il rispetto, in particolare, degli obiettivi trasversali sanciti dall’articolo 9 TFUE. Tra tali obiettivi figurano le esigenze connesse alla promozione di un elevato livello di occupazione nonché alla garanzia di un’adeguata protezione sociale.
Pertanto, al fine di raggiungere nel miglior modo l’obiettivo perseguito dalla direttiva 96/71 in un contesto che era cambiato, il legislatore dell’Unione poteva legittimamente adeguare l’equilibrio sul quale tale direttiva si basava, rafforzando i diritti dei lavoratori distaccati nello Stato membro ospitante affinché la concorrenza tra le imprese che distaccavano lavoratori in tale Stato membro e le imprese stabilite in quest’ultimo si sviluppasse in condizioni più eque.
La Corte precisa altresì, a tale proposito, che l’articolo 153 TFUE, che riguarda soltanto la tutela dei lavoratori e non anche la libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione, non poteva costituire la base giuridica della direttiva 2018/957. Tale direttiva, dal momento che non contiene alcuna misura di armonizzazione, ma si limita a coordinare le normative degli Stati membri in caso di distacco di lavoratori, imponendo l’applicazione di talune condizioni di lavoro e di occupazione previste dalle norme obbligatorie dello Stato membro ospitante, non può violare l’eccezione contemplata all’articolo 153, paragrafo 5, TFUE alle competenze dell’Unione derivanti dai primi paragrafi di tale articolo.
In secondo luogo, la Corte esamina il motivo di ricorso vertente sulla violazione dell’articolo 56 TFUE, e più in particolare sul fatto che la direttiva 2018/957 eliminerebbe il vantaggio concorrenziale, in termini di costi, di cui avrebbero beneficiato i prestatori di servizi stabiliti in taluni Stati membri. La Corte rileva che la direttiva 2018/957, al fine di conseguire il suo obiettivo, procede a un riequilibrio dei fattori in relazione ai quali le imprese stabilite nei diversi Stati membri possono entrare in concorrenza. Tuttavia, tale direttiva non elimina l’eventuale vantaggio concorrenziale di cui beneficerebbero i prestatori di servizi di taluni Stati membri, in quanto essa non ha in alcun modo l’effetto di eliminare qualsiasi concorrenza fondata sui costi. Essa prevede, infatti, di garantire ai lavoratori distaccati l’applicazione di un insieme di condizioni di lavoro e di occupazione nello Stato membro ospitante, tra cui gli elementi costitutivi della retribuzione resi obbligatori in tale Stato. Tale direttiva non ha quindi effetto sugli altri elementi dei costi delle imprese che distaccano simili lavoratori, quali la produttività o l’efficienza di questi, menzionati al considerando 16 della medesima.
In terzo luogo, per quanto riguarda l’esame della legittimità delle norme relative alla nozione di «retribuzione» e di quelle relative a quella di «distacco di lunga durata», previste rispettivamente all’articolo 3, paragrafo 1, primo comma, lettera c), e all’articolo 3, paragrafo 1 bis, della direttiva 96/71 modificata, la Corte ricorda che il giudice dell’Unione, investito di un ricorso di annullamento contro un atto legislativo quale la direttiva 2018/957, deve assicurarsi unicamente, dal punto di vista della legittimità interna di tale atto, che esso non violi i Trattati UE e FUE o i principi generali del diritto dell’Unione, e che non sia viziato da uno sviamento di potere. Per quanto riguarda il sindacato giurisdizionale sull’osservanza di tali condizioni, il legislatore dell’Unione dispone di un ampio potere discrezionale nei settori, quali la normativa relativa al distacco dei lavoratori, in cui la sua azione richiede scelte di natura tanto politica quanto economica o sociale e in cui è chiamato a effettuare apprezzamenti e valutazioni complessi. Alla luce di tale ampio potere discrezionale, la Corte dichiara che, quanto alla norma relativa al distacco di lunga durata, il legislatore dell’Unione non è incorso in un errore manifesto nel ritenere che un distacco di una durata superiore a dodici mesi dovesse avere la conseguenza di ravvicinare sensibilmente la situazione personale dei lavoratori distaccati interessati a quella dei lavoratori impiegati da imprese stabilite nello Stato membro ospitante.
In quarto luogo, la Corte rileva che la valutazione d’impatto, che è stata presa in considerazione dal legislatore dell’Unione per ritenere che la tutela dei lavoratori distaccati prevista dalla direttiva 96/71 non fosse più adeguata, ha messo in risalto, in particolare, due circostanze che hanno potuto ragionevolmente indurre tale legislatore a ritenere che l’applicazione delle «tariffe minime salariali» dello Stato membro ospitante non fosse più idonea ad assicurare la tutela di tali lavoratori. Da un lato, la Corte aveva accolto un’interpretazione ampia di tale nozione nella sentenza Sähköalojen ammattiliitto[6], che includeva, oltre al salario minimo previsto dalla legislazione dello Stato membro ospitante, un certo numero di elementi. Pertanto, si è potuto constatare, nella valutazione d’impatto, che la nozione di «tariffe minime salariali», come interpretata dalla Corte, si discostava notevolmente dalla prassi diffusa delle imprese che distaccavano lavoratori in un altro Stato membro, consistente nel versare a questi ultimi solo il salario minimo. Dall’altro lato, dalla valutazione d’impatto consta che, nel corso del 2014, erano emerse differenze rilevanti di retribuzione, in diversi Stati membri ospitanti, tra i lavoratori impiegati da imprese stabilite in tali Stati membri e i lavoratori che vi erano distaccati.
In quinto luogo, la Corte esamina la presunta violazione del regolamento «Roma I» da parte dell’articolo 3, paragrafo 1 bis, della direttiva 96/71 modificata, il quale prevede che, in caso di distacco superiore a dodici mesi, ai lavoratori distaccati si applichi imperativamente la quasi totalità degli obblighi derivanti dalla legislazione dello Stato membro ospitante, indipendentemente dalla normativa applicabile al rapporto di lavoro. A tale riguardo, la Corte osserva che l’articolo 8 del regolamento «Roma I» stabilisce, al suo paragrafo 2, che, in mancanza di una scelta delle parti, il contratto individuale di lavoro è disciplinato dalla legge del paese nel quale o, in mancanza, a partire dal quale il lavoratore svolge abitualmente il suo lavoro, paese che non è ritenuto cambiato quando il lavoratore svolge il suo lavoro in un altro paese in modo temporaneo. Nondimeno, il regolamento «Roma I» prevede, al suo articolo 23, che si possa derogare alle norme di conflitto di leggi da esso stabilite qualora disposizioni del diritto dell’Unione fissino norme relative alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali in talune materie. Orbene, in considerazione della sua natura e del suo contenuto, l’articolo 3, paragrafo 1 bis, della direttiva 96/71 modificata costituisce una norma speciale di conflitto di leggi, ai sensi dell’articolo 23 del regolamento «Roma I».
[1] Direttiva 96/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (GU 1997, L 18, pag. 1).
[2] Direttiva (UE) 2018/957 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 giugno 2018, recante modifica della direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (GU 2018, L 173, pag. 16, e rettifica in GU 2019, L 91, pag. 77).
[3] Regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 giugno 2008, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma I) (GU 2008, L 177, pag. 6) (in prosieguo: il «regolamento “Roma I”»).
[4] La direttiva 96/71 è stata adottata sulla base dell’articolo 57, paragrafo 2, e dell’articolo 66 CE, i quali sono stati sostituiti dagli articoli del trattato FUE succitati.
[5] Documento di lavoro SWD (2016) 52 finale, dell’8 marzo 2016, intitolato «Valutazione d’impatto che accompagna la proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio recante modifica della direttiva 96/71».
[6] Sentenza della Corte del 12 febbraio 2015, Sähköalojen ammattiliitto (C‑396/13, EU:C:2015:86, punti da 38 a 70) (v. anche comunicato stampa n. 17/15).