«Un grande e fedele servitore della Repubblica», una «guida ed esempio per tanti della sua generazione e per quelle venute dopo», per «il coraggio, il rigore morale, la perseveranza nell’operare per il bene comune», qualità dell’uomo di Stato ma anche «il lascito a cui ancora attingiamo per guardare al futuro con più fiducia, e senza recedere» davanti al pericolo mafia.
Questo fu Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo e prima generale dell’Arma dei Carabinieri, ucciso nel capoluogo siciliano in un agguato mafioso la sera del 3 settembre 1982 iniseme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente della scorta Domenico Russo, e così lo ha ricordato il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, intervenuta questa mattina al termine della celebrazione religiosa nella cattedrale della città in ricordo delle vittime della strage di 38 anni fa.
Perché «ricordare il loro sacrificio, più che un dovere, è una necessità ineludibile».
Senza la memoria del passato, infatti, «rischieremmo di smarrire la nostra stessa identità», ha detto il ministro, che prima della celebrazione liturgica si è recata sul luogo dell’uccisione, in via Carini, accolta dal prefetto di Palermo Giuseppe Forlani, per deporre una corona di alloro.
Riallacciando il passato al presente e al futuro, la titolare del Viminale ha spiegato perché l’esempio di Dalla Chiesa – la cui uccisione «rappresentò un colpo durissimo per il Paese» – continua a essere linfa per l’azione di contrasto contro ogni forma di potere mafioso.
Dopo la sua morte lo Stato istituì l’Alto Commissario antimafia con «poteri straordinari ad amplissimo spettro, che indirizzarono gli strumenti di controllo verso gli ambiti più sensibili all’infiltrazione mafiosa: gli appalti pubblici e le attività economico-produttive». Un approccio strategico che anima tuttora «il sistema della prevenzione amministrativa antimafia», rimettendone l’esercizio ai prefetti.
In questo modo l’ordinamento ha saputo mettere a frutto l’intuizione e la capacità del prefetto Dalla Chiesa «di interpretare la realtà in cui si immergeva», come dimostrano – ha ricordato il ministro Lamorgese – le dichiarazioni rese alla Commissione Parlamentare antimafia quando era ancora comandante della legione di Palermo.
«Descrisse una mafia nuova e diversa rispetto a quella che aveva conosciuto e visto all’opera negli anni giovanili», inviato a Corleone tra il 1949 e il 1950: una mafia che cercava già di acquisire «una dimensione internazionale», approfittando anche dei progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Comprese tra i primi che per sconfiggere le mafie bisognava scuotere le comunità locali «da quella sorta d’indifferenza e di triste rassegnazione a cui sembravano piegate», sollecitandole al «rifiuto della sub-cultura mafiosa» anche garantendo i diritti fondamentali, e costruendo una società più equa.
Rigore etico, tensione morale, generosità, attitudine all’innovazione abbinata a una «lucida visione strategica» sono al tempo stesso un lascito del prefetto e un esempio del quale essere grati «è un dovere» ed essere all’altezza «l’impegno che ci attende», per non vanificare il ricordo di un funzionario dello Stato che ha amato la Sicilia.