Una donna che rischia di essere vittima di tali atti una volta ritornata nel suo paese di origine può ottenere lo status di rifugiato sulla base della sua appartenenza a «un determinato gruppo sociale»…
La direttiva 2011/95 sulla protezione internazionale stabilisce le condizioni per il riconoscimento, da un lato, dello status di rifugiato e, dall’altro, della protezione sussidiaria di cui possono beneficiare i cittadini di paesi terzi. Tra i motivi che consentono di ottenere lo status di rifugiato vi è la persecuzione per motivi di razza, religione, cittadinanza, opinioni politiche o di appartenenza a un determinato gruppo sociale. La direttiva precisa, inoltre, che la protezione sussidiaria è prevista per qualsiasi cittadino di un paese terzo che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel suo paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un danno grave. Per danni gravi si intendono la pena di morte, l’essere giustiziato, la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante.
Il Tribunale amministrativo della città di Sofia ha espresso dubbi sulla possibilità di concedere la protezione internazionale e sul tipo di protezione internazionale da accordare a una cittadina turca, di origine curda, di fede mussulmana (sunnita) e divorziata, in particolare in considerazione della natura degli atti di violenza a cui questa potrebbe essere esposta se ritornasse nel suo paese di origine. Tale donna è stata costretta a un matrimonio combinato e, a seguito di numerosi episodi di violenza domestica e di minacce da parte sia del marito, sia della sua famiglia biologica, sia della famiglia del marito, ha dovuto lasciare il domicilio coniugale. Nel 2017, ovvero un anno prima che venisse pronunciato il divorzio dal primo marito, ha contratto un matrimonio religioso con un altro uomo. Attualmente si trova in Bulgaria e ha dichiarato alle autorità competenti di temere per la sua vita se dovesse ritornare in Turchia.
Innanzi tutto, l’avvocato generale Jean Richard de la Tour esamina le condizioni in presenza delle quali la cittadina di un paese terzo, che rischia di essere vittima di un delitto d’onore o di un matrimonio forzato nonché di essere esposta ad atti di violenza domestica una volta di ritorno nel suo paese di origine, può ottenere lo status di rifugiato sulla base della sua appartenenza a un «determinato gruppo sociale». Egli ricorda che la direttiva sulla protezione internazionale prevede due condizioni cumulative: da un lato, i membri del «determinato gruppo sociale» devono condividere una caratteristica innata o una storia comune che non può essere mutata. Su tale punto, l’avvocato generale rinvia alle disposizioni della direttiva 2011/95 1, che specificano la necessità di tenere conto delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere, ai fini della determinazione dell’appartenenza a un «determinato gruppo sociale». Dall’altro, tale gruppo deve possedere un’identità distinta nel paese terzo perché vi è percepito come diverso dalla società circostante.
1 Articolo 10, paragrafo 1, lett. d), secondo comma, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011 , recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, p.9).
Per quanto riguarda la prima condizione, l’avvocato generale osserva che il genere della donna in questione può essere associato a una caratteristica innata – ossia il suo sesso biologico – «che non può essere mutata» ai sensi della direttiva. Per quanto riguarda la seconda condizione, l’avvocato generale precisa che il genere è un concetto sociologico che viene utilizzato in modo tale da prendere in considerazione, al di là del sesso biologico, i valori e le rappresentazioni ad esso associati. Pertanto, il genere è un concetto che deve consentire di evidenziare il fatto che le relazioni tra donne e uomini, in una particolare società, così come le disuguaglianze che ne possono derivare a causa dei ruoli maschili e femminili assegnati sulla base di differenze biologiche, sono acquisite e costruite dalle società e possono quindi evolvere in modo diverso nel corso del tempo e in funzione delle società e delle comunità. L’avvocato generale ritiene pertanto che le donne, per il solo fatto di essere donne, siano un chiaro esempio di un insieme sociale definito da caratteristiche innate e immutabili che possono essere percepite in modo diverso dalla società, a seconda del loro paese di origine, e ciò a causa delle norme sociali, giuridiche o religiose di tale paese o delle usanze della comunità a cui appartengono. L’avvocato generale conclude che un’autorità nazionale competente può ritenere che la donna in questione appartenga, in ragione del suo genere, a un «determinato gruppo sociale» in quanto, in conseguenza del suo ritorno, sarebbe esposta nel suo paese di origine ad atti di grave violenza domestica che sono tradizionali in determinate comunità.
L’avvocato generale precisa, inoltre, che gli atti di persecuzione a cui la donna in questione può essere esposta nel suo paese di origine possono essere presi in considerazione per determinare l’identità distinta di un gruppo in tale paese. Egli ritiene che sia la natura degli atti di persecuzione relativi a determinate vittime a permettere di definire l’«identità distinta» di un «gruppo sociale». La direttiva 2 fa riferimento ad atti particolarmente rappresentativi di atti violenza di genere in quanto diretti contro una persona a causa del suo sesso o della sua identità o che colpiscono in modo sproporzionato le persone di un determinato sesso. Per quanto riguarda gli atti di violenza domestica, questi possono tradursi in atti di estrema gravità e in violenze ripetute che possono comportare una grave violazione dei diritti fondamentali della persona.
In secondo luogo, l’avvocato generale Richard de la Tour chiarisce che quando si tratta di atti di persecuzione commessi da un soggetto non statale, occorre verificare che il paese di origine sia in grado e disposto a garantire una protezione effettiva contro gli atti di persecuzione. L’autorità nazionale competente deve effettuare una valutazione approfondita della domanda di protezione internazionale su base individuale. Essa dovrebbe tenere conto di tutti gli elementi pertinenti relativi al paese di origine, in particolare le disposizioni legislative e regolamentari di tale paese, nonché le relative modalità di applicazione. A seguito di tale valutazione, l’autorità competente è tenuta a stabilire se esista un nesso causale tra, da un lato, i motivi su cui si fondano gli atti di violenza, ovvero l’appartenenza della persona interessata a un determinato gruppo sociale e, dall’altro, la mancanza di protezione da parte delle autorità del paese di origine.
Infine, per quanto riguarda il riconoscimento della protezione sussidiaria, l’avvocato generale ritiene che qualora l’autorità nazionale competente accerti che, in caso di ritorno nel suo paese di origine, la cittadina rischia di essere giustiziata in nome dell’onore della famiglia o della sua comunità o di essere vittima di tortura o di altra forma di pena o trattamento inumano o degradante derivante specificamente da violenze domestiche, tale autorità sia tenuta a qualificare tali atti come «danni gravi» ai sensi della direttiva sulla protezione internazionale. In tale contesto, all’interessata può essere riconosciuta la protezione sussidiaria.
Al fine di determinare se tale rischio sia fondato, l’autorità nazionale competente è tenuta ad accertare se le autorità dello Stato terzo o i partiti o le organizzazioni che lo controllano offrano una protezione contro tale danno grave.