Intervento di Pasquale Stanzione – Il Sole 24 Ore…
Già nel 1997, con la sentenza Reno v. Aclu, la Corte suprema americana, nel definire Internet “mezzo unico e completamente nuovo di comunicazione umana in tutto il mondo”, coglieva la prima promessa della rete: il potenzialmente illimitato pluralismo, la democratizzazione dell’informazione. Nulla come la rete, infatti, ha liberalizzato l’accesso alle fonti informative e, al contempo, ha consentito a ciascuno di esercitare la libertà di manifestazione del pensiero: pietra angolare della democrazia, come affermò la Consulta italiana sin dal 1965.
Negli anni a venire, la rete sarebbe peraltro divenuta anche presupposto di esercizio di diritti fondamentali: dall’istruzione alla salute, dal lavoro all’accesso alla giustizia e per ciò l’accesso ad essa, un vero e proprio diritto fondamentale. Di qui l’esigenza, sempre più forte, di superare il digitai divide che rappresenta, oggi, una delle diseguaglianze più inaccettabili, che riproduce e amplificale vulnerabilità più tradizionali. Il combinato disposto del microtargeting informativo – quale metodo di selezione delle notizie da proporre all’utente – e della diffusione in rete di contenuti falsi oltre che illeciti rischia per altro verso di rendere la più grande e aperta agorà della storia una somma di enclaves.
Nel primo Novecento il “dominio della tecnica” fu considerato tratto distintivo del post-moderno. Ma la primazia della tecnica caratterizza ancora più marcatamente il nostro tempo, il cui l’uomo rischia di esserne non più dominus, ma ad essa subalterno. E ciò per la potenza trasformatrice delle nuove tecnologie, l’attitudne a elaborare nuovi significati del mondo, incidendo sullo sguardo prima che sull’orizzonte. In questo vorticoso sovvertimento di coordinate e gerarchie valoriali, compito principale del diritto è restituire all’uomo la centralità che può garantire un rapporto armonico con la tecnologia, consolidando l’indirizzo personalista su cui si fondano la nostra Costituzione e l’ordinamento dell’Unione europea.
Come indicano le innumerevoli applicazioni dell’intelligenza artificiale, infatti, la tecnica oggi perde sempre più il suo carattere strumentale per assurgere a fine in sé; scardina coordinate assiologiche, ridisegnando la geografia del potere e il suo sistema di checks and balances. Ne risultano profondamente incise le strutture democratiche e la stessa tassonomia delle libertà e dei diritti individuali, con il loro apparato di garanzie e la loro vocazione egualitaria. Ecco perché il discorso sulla tecnica, oggi, è essenzialmente un discorso sul potere e sulla libertà e, pertanto, sulla democrazia, al cui sviluppo il diritto è chiamato a dare un contributo importante se si vuole agire, non subire, l’innovazione.
Il diritto è tra le scienze sociali quella che ha l’onere più gravoso ma, in fondo, anche più importante: vedere orizzonti tanto quanto confini, estrarre dalle altre discipline il limite da opporre a una corsa altrimenti cieca verso “magnifiche sorti e progressive”. Attraverso le lenti dei giurista è, dunque, possibile leggere fino infondo il percorso dell’innovazione e orientarlo in una direzione antropocentrica, altrimenti oscurata dalla volontà di potenza della tecnica. L’allocazione dei potere è intimamente legata alle dinamiche che governano la rete e che hanno determinato, in pochi anni, l’affermazione incontrastata delle piattaforme, assurte a veri e propri poteri privati.
Ma la disciplina della privacy mira a contrastare l’indebito sfruttamento della principale risorsa su cui si basa il potere nel digitale, ovvero i dati, ceduti spesso nell’inconsapevolezza del loro valore. Il digitale ha scardinato non soltanto il sistema di allocazione tradizionale del potere, ma anche il processo di costruzione dell’identità e, quindi, il suo rapporto con la libertà. Le nuove tecnologie hanno, invece, reso il termine “identità” necessariamente plurale, affiancando all’identità fisica innumerevoli identità digitali che concorrono con la prima, fin quasi a prevalere su di essa.
Su questo terreno, la protezione dei dati ha svolto un ruolo davvero centrale, nel tentativo costante di ricomporre, è stato detto, un “Io diviso”. La privacy, svolgendo un ruolo sociale primario, garantisce infatti un governo antropocentrico dell’innovazione, salvaguardando l’identità e la dignità individuale rispetto al potere performativo della tecnica. In questo senso, essa rappresenta davvero un habeas data: corrispettivo, nella società digitale, di ciò che l’habeas corpus ha rappresentato sin dalla Magna Charta; quale presupposto principale di immunità dal potere, promani esso dallo Stato, dal mercato o dalla tecnica.
Ecco perché la privacy, tutt’altro che un ostacolo all’innovazione ne rappresenta invece la misura “democratica”, il criterio-guida cui orientare uno sviluppo che rischia altrimenti di essere, per paradosso, socialmente regressivo.