Le malattie professionali degli insegnanti che determinano l’inidoneità all’insegnamento presentano una diagnosi psichiatrica nell’80% dei casi. Tuttavia, ai docenti non è ancora riconosciuta ufficialmente tale malattia professionale, sia a causa della ritrosia del sistema pubblico nazionale a riscontrare il burnout, sia per via di una macchina amministrativa statale lentissima, non aggiornata e con il personale ridotto ai minimi termini.
Il risultato è che i medici delle Commissioni Mediche di Verifica quasi sempre ignorano le patologie professionali dei docenti, finendo per riammettere in servizio insegnanti con pesanti diagnosi psichiatriche. A denunciarlo è il dottor Vittorio Lodolo D’Oria, tra i massimi esperti nazionali della patologia tra gli insegnanti.
È proprio il caso di dire: il burnout, questo sconosciuto. Perché lo stress da cattedra è alla base di un numero crescente di patologie tra i docenti, tuttavia i primi a non riscontrarlo sono i medici che per legge dovrebbero essere deputati a farlo. “Gli accertamenti medici, operati dai Collegi Medici di Verifica su richiesta del lavoratore o del suo dirigente scolastico – scrive il dottor Vittorio Lodolo D’Oria su Orizzonte Scuola – vengono attuati sulla base della documentazione medica, prodotta dall’interessato, purché proveniente esclusivamente da struttura pubblica. Ed è proprio quest’ultimo requisito a generare ulteriori problemi per il docente che presenta un disagio psichico. Infatti il Centro Psico Sociale di zona ha lunghe liste di attesa ed è spesso sottodimensionato in termini di personale”.
“Diviene così impossibile far certificare il proprio “burnout” da una struttura pubblica e si corre il rischio che la il Collegio Medico di Verifica ti rimandi a scuola col giudizio di idoneità, nonostante la precaria situazione clinica. Se invece i Collegi Medici di Verifica sono accorti, richiedono una relazione psichiatrica allo stesso Centro Psico Sociale che, dopo settimane di attesa, viene costretto a rispondere al Collegio Medico”.
Il medico, quindi, descrive una testimonianza che “esprime compiutamente tutte le difficoltà accennate. Prima fra tutte è certamente quella dovuta al mancato riconoscimento ufficiale di malattia professionale degli insegnanti. Ne consegue che i medici, schiacciati dagli stereotipi al pari dell’opinione pubblica, e totalmente ignari delle malattie professionali della scuola, sono all’oscuro del nesso che lega le diagnosi psichiatriche all’insegnamento”.
La testimonianza è quella di “una docente presso una scuola primaria” che di recente si è “recata presso il Centro Psico Sociale di zona dove” è “stata visitata da una psichiatra”. La maestra racconta di essere “rimasta alquanto perplessa in quanto la dottoressa – dopo alcuni lunghi minuti di silenzi” le “ha detto che in quella sede vengono curati pazienti con malattie ben più gravi e serie (come ad esempio la schizofrenia) e che il medico di famiglia avrebbe potuto limitarsi” a prescriverle “un farmaco antidepressivo”.
L’alta incidenza di malattia psichiatriche ed oncologiche è stata di recente confermata da un gruppo di ricercatori che hanno compiuto un’indagine nazionale, utilizzando più questionari, volti ad indagare diversi ambiti problematici connessi con lo sviluppo della sindrome. Dai risultati desunti dallo studio, risulta che spesso ciò che manca nel lavoro docente è la possibilità di essere sostenuti da una rete (di esperti, di colleghi, etc.), che contribuisca a fornire un supporto sempre presente e disponibile nei momenti di inevitabile difficoltà vissuti a scuola. Ciò è emerso anche in altri studi nazionali ed internazionali (Gabola e Albanese, 2015; Di Giovanni e Greco, 2015): i più esposti al rischio burnout risultano, oltre ai più giovani, anche i docenti più emotivi e stanchi, spesso con tanta anzianità lavorativa alle spalle. E ciò avviene, confermano, perché i medici delle Commissioni Mediche di Verifica spesso ignorano le patologie professionali dei docenti, finendo per riammettere in servizio insegnanti con pesanti diagnosi psichiatriche.
Non si schioda, quindi, l’indifferenza delle strutture pubbliche dinanzi al problema dei gravi disagi psicologici degli insegnanti, derivanti dallo stress cosiddetto da “cattedra”: è infatti assodato che in altissima percentuale la professione del docente, se condotta continuativamente per anni e per decenni, porta al burnout, quindi all’insorgenza di malattie professionali sempre più spesso anche invalidanti.
In questa situazione, quindi, è chiaro che occorre procedere con un immediato adeguamento, anche attraverso una formazione apposita, delle Commissioni e dei Centri medici pubblici di competenza perché si adeguino alla reale consistenza e gravità delle patologie mentali della categoria. Parallelamente, diventa fondamentale che i docenti italiani vengano collocati in pensione così come avviene nei Paesi europei, ovvero a 63 anni, e non legando l’uscita dal lavoro all’aspettativa di vita. Invece, tranne per i maestri della scuola dell’infanzia, si continua a considerare la loro professione non particolarmente gravosa: così ci ritroviamo con il personale insegnante più vecchio del mondo.
Secondo Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal, “vale la pena ricordare che in Germania un insegnante continua a lasciare il lavoro anche dopo 25 anni di servizio e in Francia si va in pensione tra i 60 e i 62 anni. Ecco perché l’Anief ha fatto, in questi giorni, da tramite per chiedere la presentazione, nel disegno di legge sul “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021” AC n. 1334, di una serie di emendamenti che permettano, tra l’altro, l’accesso e la decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia o di anzianità secondo le regole precedenti alla legge Fornero, oltre a collocare la professione docente tra quelle a carattere gravoso in tutti gli ordini di scuola”.