Tale principio esclude che possa essere avviato o proseguito un procedimento penale per gli stessi fatti, qualora esista una decisione definitiva, anche se tale decisione è successiva…
Il 4 agosto 2016, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha irrogato alla Volkswagen Group Italia SpA (VWGI) e alla Volkswagen Aktiengesellschaft (VWAG) una sanzione pecuniaria di EUR 5 milioni per pratiche commerciali scorrette nei confronti dei consumatori. Tali pratiche riguardavano, da un lato, la commercializzazione di veicoli diesel in Italia, a partire dal 2009, contenenti un software che consentiva di alterare la misurazione dei livelli di emissioni di ossidi di azoto (NOx) in occasione dei test per il controllo delle emissioni inquinanti e, dall’altro, la diffusione di messaggi pubblicitari che evidenziavano la conformità di tali veicoli ai criteri previsti dalla normativa ambientale. La VWGI e la VWAG hanno proposto ricorso avverso tale decisione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Italia). Nel frattempo, la Procura di Braunschweig (Germania) ha irrogato alla VWAG una sanzione pecuniaria di importo pari a EUR 1 miliardo con la motivazione che la VWAG aveva violato le disposizioni della legge in materia di illeciti amministrativi che sanzionano le violazioni colpose dell’obbligo di vigilanza sull’attività delle imprese, in relazione allo sviluppo di tale software e all’installazione di detto software in 10,7 milioni di veicoli diesel venduti nel mondo intero (di cui 700 000 sono stati venduti in Italia). La decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018, in quanto la VWAG ha versato la sanzione pecuniaria e ha formalmente rinunciato a proporre ricorso. La VWGI e la VWAG hanno dedotto l’illegittimità sopravvenuta della decisione italiana per violazione del principio del ne bis in idem. Tale principio vieta il cumulo sia di procedimenti sia di sanzioni aventi natura penale per gli stessi fatti e nei confronti di una stessa persona. Esso è sancito dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il Consiglio di Stato italiano, adito in appello a seguito del rigetto del ricorso in primo grado, ha chiesto alla Corte di giustizia se tale principio si applichi nel caso di specie.
Con la sentenza in data odierna, la Corte risponde in senso affermativo alla questione se le sanzioni irrogate per pratiche commerciali sleali siano qualificabili come sanzioni amministrative di natura penale. La Corte sottolinea che, ai fini della valutazione della natura penale dei procedimenti e delle sanzioni di cui trattasi, sono rilevanti tre criteri:
per quanto riguarda il primo criterio, relativo alla qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto interno, la Corte osserva che l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali non si applica esclusivamente ai procedimenti e alle sanzioni qualificati come «penali» dal diritto nazionale, ma si estende anche – a prescindere da una siffatta qualificazione nel diritto interno – a procedimenti e sanzioni che debbano considerarsi come aventi natura penale;
per quanto riguarda il secondo criterio, relativo alla natura stessa dell’illecito, la Corte precisa che esso implica di verificare se la sanzione di cui trattasi persegua, in particolare, una finalità repressiva;
per quanto riguarda il terzo criterio, relativo al grado di severità della sanzione che l’interessato rischia di subire, la Corte ricorda che esso è valutato in funzione della pena massima prevista dalle disposizioni pertinenti.
Alla luce di questi tre criteri, la Corte conclude che, benché sia qualificata come sanzione amministrativa dalla normativa nazionale, una sanzione pecuniaria irrogata a una società dall’autorità nazionale competente in materia di tutela dei consumatori per sanzionare pratiche commerciali sleali costituisce una sanzione penale quando persegue una finalità repressiva e presenta un elevato grado di severità.
La Corte risponde, poi, in senso affermativo alla questione se il principio del ne bis in idem osti a una normativa nazionale che consente il mantenimento di una sanzione pecuniaria penale inflitta a una persona giuridica per pratiche commerciali sleali nel caso in cui essa abbia riportato una condanna penale per gli stessi fatti in un altro Stato membro, anche se detta condanna è successiva alla data della decisione che irroga tale sanzione pecuniaria ma è divenuta definitiva prima che la sentenza sul ricorso giurisdizionale proposto avverso tale decisione sia passata in giudicato.
Infatti, il principio del ne bis in idem esclude che, qualora esista una decisione definitiva, possa essere avviato o proseguito un procedimento penale per gli stessi fatti; tale principio si applica dal momento in cui una decisione penale è divenuta definitiva, indipendentemente dal modo in cui tale decisione abbia acquisito carattere definitivo. Tuttavia, esso può trovare applicazione solo qualora i fatti oggetto dei due procedimenti o delle due sanzioni in questione siano identici; non è quindi sufficiente che tali fatti siano simili.
Infine, la Corte risponde alla questione di stabilire a quali condizioni possano essere giustificate limitazioni all’applicazione del principio del ne bis in idem. La Corte dichiara che è autorizzata la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem, in modo da consentire un cumulo di procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, qualora siano soddisfatte tre condizioni: tale cumulo non deve rappresentare un onere eccessivo per l’interessato, norme chiare e precise devono consentire di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo e, infine, i procedimenti di cui trattasi devono essere stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo.