Secondo l’ufficio studi del giovane sindacato è evidente che nel sistema formativo e lavorativo italiano c’è più di qualcosa che non va: da un approfondimento dell’indagine Eurostat, che ha stimato la presenza nel nostro Paese del 25,7% di Not in education, employment or training, risulta che non è solo un problema dovuto alla mancanza di lavoro.
I comunicati governativi sul presunto aumento degli occupati si rivelano sempre più fantasiosi, perché l’Italia si conferma maglia nera fra i Paesi Ue per i giovani fra i 18 e i 24 anni che non studiano e non cercano lavoro: secondo un’indagine di Eurostat, ripresa dalle agenzie di stampa, nel 2017 nel nostro Paese c’erano il 25,7% di cosiddetti Neet, i Not in education, employment or training. Se si guarda all’UE, la percentuale del Belpaese è la più alta di tutte e addirittura 10 punti percentuali superiore alla media europea pari al 14,3% che corrispondono a circa 5,5 milioni di giovani. Rispetto ai Paesi Bassi, dove i Neet si fermano al 5,3%, in Italia si concentrano cinque volte tanto di under 24 che né sono occupati né sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione.
È evidente che nel sistema formativo e lavorativo italiano c’è più di qualcosa che non va. Perché non è solo un problema dovuto alla mancanza di lavoro, visto che ogni anno ci sono decine e decine di migliaia di posti liberi che le aziende non riescono ad assegnare per mancanza di personale adatto. Solo qualche giorno fa è stata resa pubblica la notizia di un’azienda del padovano che produce macchine agricole e che da diverso tempo sta cercando 70 persone da assumere ma con esito negativo perché non si riescono a trovare i profili necessari: eppure lo stipendio che veniva offerto era buono, dai 1.500 ai 2.500 euro mensili, una somma che avrebbe garantito anche un discreto tenore di vita.
Secondo il sindacato Anief, il nodo principale da sciogliere rimane quello dell’inadeguato ancoraggio al sistema scolastico dei nostri giovani: anticipando il percorso scolastico obbligatorio a cinque anni e allungandolo di due in uscita, dagli attuali 16 anni alla maggiore età, come aveva chiesto quasi 20 anni fa l’ex Ministro Luigi Berlinguer, si produrrebbe il risultato di convincere le nuove generazioni che la strada dello studio e della cultura non è un optional ma un dovere civico di ogni cittadino. Da attuare per il proprio bene e per quello dello Stato. Invece, rimaniamo fermi a percentuali altissime di abbandono scolastico che in alcune zone del Sud superano il 40%. Ovvero il quadruplo di quanto indicato dell’Unione europea come soglia massima.
“Uscire dalla scuola prematuramente – spiega Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – significa in alta percentuale creare un solco rispetto alla società e rendere particolarmente difficile il proprio futuro formativo e professionale. Perché un ragazzo senza un titolo di studio, salvo i casi in cui esistono realtà familiari a protezione, è destinato a diventare un Neet. Ecco perché insistiamo sull’allargamento dell’obbligo scolastico, portandolo a 18 anni di età, limite che, alla luce di una maggiore consapevolezza del sé e del mondo che ci circonda, responsabilizzerebbe di sicuro le scelte future dei nostri giovani; ma anche anticipando di un anno l’inizio della scuola dell’obbligo e creando in tal modo un’annualità ‘ponte’ scuola dell’infanzia-scuola primaria, con maestri di entrambi i cicli che offrirebbero un offerta formativa trasversale e allargata nel passaggio più delicato per la crescita del bambino”.
Di recente, uno studio di TuttoScuola, ha fatto un’analisi sul “milione e 750 mila studenti” che “negli ultimi dieci anni”, rispetto ad “oltre sei milioni di studenti iscritti al primo anno delle superiori negli istituti statali, non sono arrivati all’ultimo anno” e quindi non si sono mai diplomati. Sempre Tuttoscuola ha definito la dispersione scolastica come “un fenomeno complesso che riunisce in sé: ripetenze, bocciature, interruzioni di frequenza, ritardo nel corso degli studi, evasione dell’obbligo scolastico, completamento dell’obbligo scolastico e formativo senza il raggiungimento del diploma o di qualifica”. L’alto numero di studenti che lasciano i banchi prematuramente, è un problema che “si struttura nel tempo attraverso il ripetersi e/o il sommarsi di diversi fenomeni che vanno letti come indicatori di rischio sui quali attivare attenzione ed ascolto”.
Il problema, quindi, rimane quello del disinteresse per l’istruzione e la propria formazione. “Con la Buona Scuola voluta da Matteo Renzi l’unica cosa su cui si è puntato è stato il potenziamento del numero di ore di alternanza scuola–lavoro, senza puntare sulla qualità delle esperienze e nemmeno sulla sicurezza, visto che in settimana si è verificato un altro spiacevolissimo incidente nel corso di uno stage aziendale con uno studente che ha perso una falange della mano. Parallelamente si è approvato un Job Acts fallimentare, che ha avuto l’effetto di moltiplicare il precariato e il lavoro pessimamente remunerato”.
“Quello che bisognava fare – continua Pacifico – era invece l’adeguamento degli organici del personale scolastico, sia docenti che Ata, ai bisogni del territorio, tenendo conto del tasso di disoccupazione e di abbandono scolastico. Tutelando maggiormente, quindi, le zone più a rischio, ad alto flusso migratorio o geograficamente isolate. Non per ultimo, proprio per combattere l’esplosione di Neet, sarebbe stato fondamentale potenziare i CPIA, attraverso i quali si sviluppa lo studio degli adulti e l’educazione permanente. Tutte iniziative che chiediamo di attuare al governo del cambiamento, il quale ha appena preso in mano le redini politiche dell’Italia”.