“Usano la scusa che sei piccolo, che devi imparare. Le troppe ore comunque sono stancanti e il corpo a volte non ce la fa”, racconta M., di Scalea. In occasione della Giornata Mondiale contro il Lavoro Minorile[1], che ricorre domani, 12 giugno, Save the Children – l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini e le bambine a rischio e garantire loro un futuro – rilancia l’allarme su un fenomeno di lavoro precoce che in Italia si stima abbia riguardato, in modalità diverse, 336 mila minorenni tra i 7 e i 15 anni[2]. La stima è frutto di una rilevazione nazionale condotta da Save the Children nel 2023, dalla quale è emerso anche che circa 58mila minorenni tra i 14-15 anni sono stati coinvolti in attività lavorative dannose per i percorsi scolastici e per il benessere psicofisico.
I dati raccolti da Save the Children nel 2023 hanno trovato una ulteriore conferma nella recentissima ricerca che l’organizzazione ha dedicato al tema della povertà minorile e delle aspirazioni degli adolescenti. La ricerca, dal titolo “Domani (Im)possibili[3]”, effettuata intervistando un campione rappresentativo di giovani tra i 15 e i 16 anni rileva che il 43,7% degli adolescenti tra i 15 e i 16 anni aiuta in vario modo la famiglia ad affrontare le spese e, tra questi, il 18,6% ha svolto e svolge qualche attività lavorativa per non gravare sulla famiglia in difficoltà (uno su due ha meno di 16 anni).
Le testimonianze
Tornando alla ricerca sul lavoro minorile condotta nel 2023 da Save the Children in collaborazione con la Fondazione Di Vittorio[4], dalle testimonianze raccolte emergono le prospettive e i vissuti personali di giovani con esperienza diretta di lavoro minorile. “Non è giusto perché ogni bambino o ragazzo deve fare la sua vita”, racconta M., 14 anni, di Torino, mentre M., 17 anni, di Scalea, rivolgendosi a un ragazzo più giovane intenzionato a seguire il suo percorso lavorativo, suggerisce: “Se sei ancora piccolo e hai ancora un’età dove devi essere spensierato, non avere fretta”.
Le testimonianze sono state raccolte da un gruppo di 25 adolescenti tra i 15 e i 21 anni individuati nell’ambito dei progetti promossi da Save the Children e da altre organizzazioni e realizzate con la metodologia della “ricerca tra pari” (peer research) a Palermo, Scalea, Roma e Torino, tramite interviste singole o di gruppo[5] e video reportage che hanno consentito di raccogliere 40 storie che restituiscono la grande eterogeneità delle situazioni legate al fenomeno.
Molti i racconti che parlano di minorenni che combinano la frequenza scolastica con l’attività lavorativa, una scelta motivata in alcuni casi da una necessità economica, in altri dalla concezione del “lavoro come valore” che integra il percorso educativo. La conciliazione di studio e lavoro si rivela difficile da sostenere per la maggior parte dei ragazzi intervistati, come racconta M., 17 anni, di Palermo, che frequenta un istituto alberghiero e fa lavori saltuari dall’età di 13 anni: “All’inizio avevo tanta voglia ed era bello ma poi non era più come una volta. Non c’era più quella voglia, era più faticoso, venivo pagato meno e la situazione era diventata più stressante”. Lui, come molti altri, dichiara che non accetterebbe da adulto le condizioni di lavoro vissute nelle attività svolte: “Da grande un lavoro così no, uno giusto che pagano bene, in regola”.
A essere sacrificata è soprattutto la socialità e più in generale il tempo dell’adolescenza, come racconta F., 17 anni, di Palermo, a proposito della sua esperienza di lavoro estivo a 13 anni in un campeggio: “Facevo cose stancanti per una ragazzina di 13 anni (…) lo puoi fare per qualche tot di giorni ma dopo un po’ crolli, non ce la fai. Se sei una persona che comunque è abituata a questo tipo di routine sì, ma dopo un po’ crolli, non hai una vita sociale, nel senso non hai amici, non puoi uscire, quindi la tua adolescenza non te la puoi godere”.
I ragazzi intervistati testimoniano situazioni di seria urgenza economica e percorsi educativi segnati da insuccessi, senso di estraneità, sfiducia e abbandono, come accade più spesso nei territori segnati da grave deprivazione. Storie simili a quella di C., 17 anni, di Palermo, che racconta di aver lavorato come fattorino mentre frequentava la scuola, di essere poi stato bocciato al secondo anno delle superiori, di aver visto peggiorare le proprie condizioni di lavoro ricevendo una paga inferiore a quella iniziale a causa dell’assunzione di un altro lavoratore nella stessa ditta, e di aver dunque lasciato anche il lavoro. In questo caso, il supporto della famiglia gli ha però consentito di orientarsi verso un corso di formazione professionale, senza il quale sarebbe rimasto in una condizione di isolamento e completo disorientamento, ingrossando la fila dei NEET, giovani che non studiano, non frequentano corsi di formazione e non lavorano, che nel 2023 erano quasi 1 milione e 400 mila nel nostro Paese.
Le tipologie di lavoro
Secondo le stime del rapporto nazionale diffuso dall’Organizzazione sul tema del lavoro minorile, “Non è un gioco”, quasi 1 minore su 15 tra i 7 e i 15 anni, il 6,8% della popolazione totale in questa fascia d’età, svolge o ha svolto una attività lavorativa, una proporzione che sale a 1 minore su 5 se si considerano solo i 14-15enni. Tra questi ultimi, il 27,8% dei casi (circa 58mila adolescenti) riguarda lavori particolarmente dannosi per l’impatto sui percorsi educativi e il benessere psicofisico degli adolescenti coinvolti, essendo svolti in maniera continuativa durante il periodo scolastico, oppure in orari notturni o comunque percepiti da loro stessi come pericolosi.
I settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile nel nostro Paese sono quelli più tradizionali come la ristorazione (25,9%) e la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%), seguiti dalle attività in campagna (9,1%), in cantiere (7,8%), dalle attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%)[6], ma non mancano le nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, o il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche. Sebbene il 70,1% dei 14-15enni che lavorano o hanno lavorato, lo abbiano fatto in periodi di vacanza o in giorni festivi, il lavoro è faticoso da un punto di vista della frequenza e dell’intensità: quando lavorano, più della metà dei 14-15enni lo fa tutti i giorni o qualche volta a settimana, circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno.
Il mercato dello sfruttamento lavorativo può essere ancora più duro con i minorenni in condizione di maggior bisogno, come nel caso di T., un minore straniero non accompagnato arrivato dalla Tunisia: “Non volevo chiedere soldi per strada, quindi ero costretto a lavorare per avere i soldi necessari. Tagliavo verdure per i panini kebab, lavavo i piatti. Ho iniziato a frequentare la scuola per ottenere il certificato A2, ma a lavoro mi hanno detto che non potevo andare a scuola. Mi hanno detto che se tornavo un’altra volta a scuola, non potevo lavorare con loro. Con gli educatori poi ho capito era meglio lasciare e fare un corso di formazione”.
Le proposte
I più recenti dati Istat hanno registrato un aumento della povertà assoluta minorile. Questa crescita della condizione di povertà rischia di produrre, in assenza di interventi mirati, un ulteriore aumento del numero di ragazzi e ragazze con meno di 16 anni coinvolti in attività lavorative.
Per questo motivo, Save the Children sottolinea l’urgenza di agire su più fronti, dal contrasto alla povertà economica al sostegno all’offerta educativa e formativa, con un’azione sinergica delle istituzioni e di tutti gli attori sociali ed economici, sia a livello nazionale che locale.
Save the Children chiede, inoltre, di prestare particolare attenzione agli studenti in svantaggio socioeconomico, favorendo un’informazione capillare circa i servizi e le opportunità messi a disposizione per garantire il diritto allo studio, dalle borse di studio agli sgravi fiscali, e promuovendo l’introduzione di piani di sostegno personalizzati per i ragazzi e le ragazze che rischiano di interrompere anzitempo il percorso scolastico.
È, inoltre, fondamentale che la rilevazione di dati sul fenomeno del lavoro minorile sia realizzata in modo sistematico e periodico nell’ambito del sistema statistico nazionale, anche al fine di individuare le aree territoriali più colpite sulle quali concentrare gli interventi di prevenzione.
Il podcast “Non è un gioco”
Per continuare a sensibilizzare sul lavoro minorile in Italia, Save the Children rilancia sui social media dell’Organizzazione una serie podcast in 4 puntate, che, partendo da una visione generale e dai dati del fenomeno, si concentra sugli aspetti di correlazione con la dispersione scolastica, sulle forme più dannose di lavoro minorile e sul mondo della giustizia minorile. Il podcast “Non è un gioco” (https://www.savethechildren.it/non-e-un-gioco), realizzato in partnership con Will Media, è disponibile su Spotify e su tutte le piattaforme gratuite di streaming. In ogni puntata la giornalista Silvia Boccardi affronta i temi chiave del lavoro minorile a partire dalle testimonianze dirette di ragazzi e ragazze, in un dialogo aperto con gli esperti di Save the Children e numerosi ospiti.