Quasi simile a un trapezio scaleno con un’area immensa: il vertice superiore destro quasi a sfiorare l’arcipelago tunisino di Kerkenna; quello sinistro, la grande isola greca di Creta. Si tratta della neonata Regione Marittima Lybia SAR, l’area di competenza delle assai poco riconosciute e credibili autorità politiche e militari libiche per gli interventi di ricerca, soccorso e salvataggio dei naufraghi e di tutte le persone in situazioni di pericolo in mare.
Un immenso buco nero del Mediterraneo dove oggi possono affogare in tantissimi perché mancano gli strumenti e i mezzi per intervenire efficacemente e in tempi rapidi o perché con infame cinismo l’Europa ha scelto di non vedere, non sentire e non parlare, affidando all’inaffidabile partner africano la sporca guerra ai migranti e alle migrazioni. Una grande fossa comune sommersa dove seppellire sotto le acque o rendere del tutto invisibili migliaia di sorelle e fratelli in fuga dai crimini della globalizzazione (guerre, genocidi, catastrofi ambientali, fame, ecc.).
L’inferno SAR di Tripoli su mandato del governo italiano
Dallo scorso mese di luglio, le “autorità” libiche, col supporto dell’Unione Europea, hanno ufficialmente preso possesso di una grande area di mare antistante le proprie coste per le operazioni di ricerca e salvataggio SAR (Search and Rescue). In quest’area è oggi Tripoli a coordinare le risposte di pronto intervento alle richieste di soccorso, oltre a assicurare il personale e i mezzi perché i migranti possano raggiungere un “porto sicuro” (nei fatti, però, si tratta di una vera e propria deportazione manu militari dei richiedenti asilo verso le città costiere e i lager-hotspot sparsi in tutto il paese nordafricano).
La Libya Maritime SAR Region non è altro che un’immensa riserva di caccia delle imbarcazioni dirette verso il sud Italia o la Grecia con a bordo coloro che cercano protezione umanitaria e asilo nella sempre meno democratica ed accogliente Unione europea. Le attività di identificazione e istituzione della zona SAR sotto controllo libico erano state affidate nel 2016 dalla Commissione europea alla Guardia Costiera italiana. Già nel giugno 2018 in Italia era però trapelata la notizia che il Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo della Guardia Costiera di Roma (IMRCC) avesse “delegato” alle autorità marittime libiche lo svolgimento delle funzioni competenti nella zona SAR nazionale, con l’avviso che “i comandanti di nave che si trovano in mare nella zona antistante la Libia, dovranno rivolgersi al Centro di Tripoli ed alla Guardia costiera libica per richiedere soccorso”. Sino ad allora, il controllo sulla sua zona SAR era stato esercitato in forma assai limitata dalle unità fedeli al governo libico, con il coordinamento e il supporto tecnico della Marina Militare italiana.
A fine agosto, la ministra della difesa pentastellata Elisabetta Trenta, nel corso di un’audizione in Commissione parlamentare, ha fornito i primi dati sulle operazioni SAR condotte autonomamente dai libici. “Esse hanno consentito nell’ultimo anno il recupero di circa 9.000 migranti in oltre 70 interventi”, ha dichiarato la ministra. Dati che nonostante l’enfasi del governo appaiono assai poco significativi, considerato il gran numero di rifugiati che attendono di lasciare la Libia per l’Europa e che presumibilmente hanno già tentato in qualche modo di attraversare il Mediterraneo (secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni – OIM sono 662.000 i migranti presenti nel paese nordafricano, mentre 152.000 sono i richiedenti asilo registrati come tali dall’Agenzia dei Rifugiati delle Nazioni Unite – UNHCR). I 9.000 migranti che Elisabetta Trenta dice essere stati soccorsi dai libici sono comunque ben al disotto del numero delle persone soccorse nelle stesse acque dalle tanto vituperate organizzazioni non governative (ONG). Il tutto collide poi con quanto denunciato a fine 2017 da Amnesty International; l’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani ha stimato infatti in circa 200.000 i migranti intercettati in mare dalla Guardia costiera libica e successivamente “trasferiti” nei famigerati centri di detenzione del paese.
Antonio Mazzeo