Le recenti vicende di Trapani inducono inevitabilmente a fare serie riflessioni sul sistema penitenziario. È opportuno chiarire che chiunque non osservi un comportamento lecito e, anzi, abusi in qualsiasi forma del ruolo che riveste, ancor più se rappresentante della legalità e della sicurezza in nome dello Stato, non possa e non debba che essere condannato ed essere destinatario delle conseguenze che le Autorità Giudiziarie intenderanno disporre quali garanti di una corretta applicazione delle norme vigenti.
Ma nello stesso modo e con la stessa veemenza con la quale si condannano gli agìti di taluni personaggi indegnamente appartenenti a un Corpo di Polizia dello Stato si deve altresì condannare la strumentalizzazione che alcune testate giornalistiche e associazioni hanno inteso intraprendere in esternazioni che poco hanno a che vedere con le vicende accadute.
Sembra quasi che lo scenario brutalmente e doviziosamente descritto sulle presunte violenze e soprusi perpetrati nella cosiddetta “sezione blu” del carcere di Trapani abbia consentito, liberamente e senza alcuna considerazione in termini di privacy o tutela del principio di presunzione di innocenza, di spostare l’attenzione dai fatti alle opinioni. È stato creato un contesto che sembra destinato a piantare il seme dell’antagonismo politico, trascurando una profonda analisi dello stato delle cose in materia penitenziaria e dei motivi che potrebbero scatenare una violenza tale.
Documentari di inchiesta, articoli, e report sono incentrati sui detenuti, sul sovraffollamento, su ipotetiche e improbabili soluzioni, e sulle sofferenze che i ristretti devono sopportare qualora non venisse garantita una detenzione umana e dignitosa. Tuttavia, ci si chiede anche come stanno coloro che condividono gli stessi spazi, disagi psichiatrici e disfunzioni, e che non hanno scelto di commettere reati o di infrangere la legge.
Perché si chiarisca una volta per tutte: le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria non hanno scelto di appartenere a un Corpo di Polizia dello Stato per sopravvivere al marciume cui quotidianamente sono sottoposti, ma per assumere e difendere una dignità di Corpo di Polizia, con la responsabilità di osservare ed eseguire compiti istituzionali che nulla hanno a che vedere con lo svilimento e il depauperamento emotivo e sociale.
Fin quando la cronaca giornalistica si dedica a riportare i contenuti delle vicende con allegazioni raccolte in sede di conferenza stampa o dai noti “spifferi” amicali, si può convenire che tale sia la situazione. Ma quando si commenta con opinioni personali e coinvolgenti, suggerendo che la Polizia Penitenziaria sia inumana e disumana, non si può ritenere l’informazione pubblica priva di contaminazioni politiche, e ancor peggio, votata a distruggere chiunque non si condivida.
Un altro dubbio sovviene: dove sono le penne fumanti e i microfoni roventi quando la Polizia Penitenziaria denuncia sofferenza, abbandono e tragiche condizioni lavorative? Dove sono i titoli di prima pagina a riportare i suicidi di appartenenti al Corpo dello Stato? Quando si è assistito a dibattiti esclusivamente sulla gestione degli istituti penitenziari e sulle condizioni lavorative della Polizia Penitenziaria? Dove e quando si è parlato dello stato effettivo di malattia della Polizia Penitenziaria?
PER ULTIMO E NON PER POCA IMPORTANZA: Dov’è il garante della privacy quando nomi, cognomi e date di nascita del personale coinvolto nell’indagine giudiziaria sono pubblicamente divulgati? E se, quando il corso della giustizia individuerà i veri responsabili, tra questi non vi saranno tutti i nomi menzionati, cosa si farà? Non basterà un indennizzo risarcitorio a riparare i danni morali.
Noi staremo vicini ai colleghi che si ritengono innocenti e ingiustamente accostati a un modus operandi di pochi, ribadendo l’assunto che “Con due righe scritte da un uomo si può fare un processo al più innocente.” Le forme di garanzia di un giusto percorso giudiziario devono valere anche per chi indossa una divisa e subisce un’indagine, non dando voce solo a coloro che, in nome della legalità, tutelano e giustificano i colpevoli.
CI DIFENDEREMO, continueremo a difenderci e denunciare criticità e indifferenza. Lo faremo da soli, come siamo abituati a fare, confidando che qualcuno si accorga del collasso della Polizia Penitenziaria. L’alternativa al carcere sarà l’unico strumento possibile per rimettere in circolazione chi non ne avrebbe avuto diritto con un sistema penitenziario adeguato.
MA QUESTO I PALADINI DEL “SALVIAMOLI TUTTI, TUTTI FUORI” NON VE LO DIRANNO!!
Mimmo Nicotra Presidente CON.SI.PE.
Confederazione sindacati penitenziari