Malattia delle arterie delle gambe: in Italia oltre 3000 amputazioni

La prevalenza dell’arteriopatia periferica in Italia si attesta intorno al 10% nelle persone di età superiore ai 40 anni con un trend in aumento fino al  23% nei prossimi anni. L’amputazione dell’arto – soluzione estrema che, oltre a impattare significativamente sulla qualità della vita, è associata ad un aumento rilevante del rischio di mortalità – in Italia viene effettuata il doppio delle volte rispetto a quanto sarebbe necessario: ci sono infatti due importantissime opzioni terapeutiche che, in buona parte dei casi, ci aiutano a evitarla…

 

Roma – Molto spesso inizia con uno strano formicolio a una gamba. Poi subentra il dolore, intenso, che costringe a fermarsi dopo pochi metri di cammino, fino alla formazione di lesioni che non guariscono. Questa è la catena di eventi che porta all’ischemia critica degli arti inferiori, lo stadio più avanzato dell’arteriopatia periferica, patologia caratterizzata dalla riduzione dell’afflusso di sangue alle arterie. Nei casi più gravi si può arrivare all’amputazione, misura estrema a cui purtroppo in Italia si ricorre più frequentemente di quanto si dovrebbe. Nel nostro Paese, infatti, vengono eseguite ogni anno 3.382 amputazioni (dati PNE 2021), la metà delle quali possono essere prevenute ricorrendo a procedure mini-invasive e ai nuovi farmaci ipolipemizzanti, sotto prescritti (solo il 10% dei pazienti li riceve), per la scarsa informazione dei medici e per il complesso il sistema di prescrizione. I temi saranno al centro della seconda edizione del meeting “Rome Peripheral Interventions” che si terrà a Roma il 9 e 10 giugno 2023. Lo scopo dell’evento è quello di fornire i più recenti aggiornamenti sulle evidenze cliniche e sulle possibilità attuali e future nel trattamento endovascolare delle patologie extra-coronariche. Patrocinato dalla Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), dall’Associazione Italiana di Neuroradiologia Diagnostica e Interventistica (Ainr) e dalla Società Italiana di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare (Sicve), il convegno riunirà clinici e interventisti e, grazie alla presentazione di dati clinici aggiornati e di live case, avrà lo scopo di migliorare la qualità della pratica quotidiana con un approccio multidisciplinare.

 

“L’arteriopatia periferica si sviluppa quando le arterie si ostruiscono e non sono più in grado di portare con normale regolarità tutto il nutrimento di cui avrebbe bisogno il nostro organismo – spiega Giovanni Esposito, professore ordinario di Cardiologia e direttore della UOC di Cardiologia, Emodinamica e Utic dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli e presidente della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE) –. L’ostruzione delle arterie è causata dalla presenza di placche aterosclerotiche che progressivamente ostacolano il regolare flusso di sangue”

 

Si stima che l’arteriopatia periferica colpisca 200 milioni di persone nel mondo, di cui 40 milioni solo in Europa. In Italia la prevalenza della malattia si attesta intorno al 10% nelle persone con più di 40 anni con un trend in aumento fino al 23% nei prossimi anni. La patologia, che spesso si verifica con l’avanzare dell’età, è più frequente nei soggetti diabetici. Particolarmente a rischio sono anche i soggetti fumatori o con un passato da fumatori, per i quali il rischio di sviluppare questo tipo di patologia è quattro volte superiore rispetto agli altri. 

“La prevenzione dell’arteriopatia periferica si basa su uno stretto controllo dei fattori di rischio: per questo occorre seguire una dieta equilibrata, a ridotto contentuo di zuccheri e grassi, smettere di fumare e praticare regolarmente esercizio fisico – specifica Esposito -. Per i pazienti diabetici, in particolare, è molto importante  evitare traumatismi agli arti perché essi aumentano le probabilità di ulcerazioni, piaghe e infezioni”.

 

Anche se i sintomi dell’arteriopatia periferica sono difficili da ignorare, molto spesso vengono confusi con i disturbi correlati all’invecchiamento. Capita quindi che ci si rivolga al medico quando la malattia è già avanzata fino a richiedere l’amputazione dell’arto colpito da patologia. “In Italia, purtroppo, si ricorre spesso a questa soluzione estrema che, oltre a impattare significativamente sulla qualità della vita, è associata un rischio rilevante di mortalità – sottolinea Esposito -. Ci sono infatti due importantissime opzioni terapeutiche che, in buona parte dei casi, ci aiutano a evitare l’amputazione dell’arto”. La prima è la terapia farmacologica che si basa su molecole che rendono più fluido il sangue. “Ci sono gli antiaggreganti piastrinici come l’aspirina e il clopidogrel, ai quali si è aggiunto l’anticoagulante rivaroxaban a dosaggio ‘vascolare’ – spiega l’esperto –. Si utilizzano anche farmaci che dilatano le arterie, come il cilostazolo, che aumenta l’autonomia di marcia e riduce il dolore. Un ruolo fondamentale è giocato dai farmaci anti-colesterolo, specialmente quelli di nuova generazione, i cosiddetti inibitori di PCSK9, in grado di ridurre del 30% il rischio di amputazione. Gli interventi di rivascolarizzazione mediante angioplastica consentono, poi, la riapertura ‘meccanica’ delle arterie come si fa sulle coronarie”.

 

Purtroppo però in Italia i farmaci ipolipemizzanti di nuova generazione sono sottoprescritti, per la scarsa informazione dei medici e per una serie di ragioni organizzative che rendono complesso il sistema di prescrizione. “Si stima infatti che gli inibitori di PKCS9 vengano prescitti al paziente solo nel 10% per cento dei casi – precisa Esposito -. Grandi differenze ci sono anche nel ricorso a procedure di rivascolarizzazione “salva-arto”, in particolar modo quelle mini-invasive.”.

 

L’insufficiente utilizzo di queste procedure si traduce così in un maggior numero di amputazioni e, di conseguenza, in un maggior carico di disabilità e un più alto rischio di mortalità precoce. “Iniziative come il meeting ‘Rome Peripheral Interventions’ diventano quindi per gli specialisti appuntamenti di importanza cruciale per l’aggiornamento e per il miglioramento delle cure offerte ai pazienti”, conclude Esposito.