È l’ennesimo episodio di violenza di genere di cui leggiamo, l’ennesimo che forse si poteva evitare, e l’ennesimo di cui probabilmente non si parlerà già più domattina.
Sembra scontato dire che condanniamo questi atti, e infatti oltre a condannarli, qui di seguito cercheremo di andare un po’ più a fondo.
Leggiamo nei vari articoli sul caso che la donna aveva già denunciato le violenze subite. Bisognerebbe quindi chiedersi il senso dell’esortare puntualmente le donne a denunciare, quando poi i fatti ci raccontano che la denuncia non va di pari passo con la tutela. Troppo spesso di fronte ai fatti di violenza si sente o si legge, tra le prime cose, che la donna non aveva denunciato e che avrebbe dovuto farlo, quasi a voler in qualche modo attribuire una percentuale di responsabilità alla vittima.
Leggiamo anche che l’uomo è un pregiudicato. Sappiamo benissimo che questo è un dettaglio pressoché insignificante, che magari servirà a qualche uomo per rafforzare il suo “not all men” (“non tutti gli uomini”), ma che di fatto non assolverà nessuno. E non lo farà perché la violenza di genere è un fatto trasversale: non era un pregiudicato il femminicida di Giulia Cecchettin, non era un pregiudicato il femminicida di Marisa Leo e non lo erano la maggior parte degli uomini che ritroviamo in questi tristi fatti di cronaca.
La violenza di genere è trasversale in quanto fatto sistemico, e in quanto tale necessita di una risposta collettiva, di una presa di coscienza collettiva e di un richiamo alla responsabilità collettiva.
Perché se è vero che non tutti gli uomini sono colpevoli per le violenze agite da alcuni, è anche vero che cercare di assolversi dalla responsabilità di genere non serve a nessuno. E la distinzione tra colpa e responsabilità diventa fondamentale: colpevole è colui che agisce la violenza, responsabile è colui che poteva agire affinché la violenza non si manifestasse ma che non ha fatto nulla per evitarlo, e anzi se ne chiama fuori. Accettare il fatto di avere una responsabilità in questo senso significa redarguire l’amico che fa una battuta inappropriata, tendere la mano ad un uomo che non sta gestendo bene una situazione di difficoltà relazionale, parlare di questi temi con i propri figli, con i propri fratelli, con i propri padri, con gli amici, con i colleghi. Significa anche proporre modelli maschili alternativi, diventare modelli maschili alternativi, ragionare sul nostro modo di usare le parole e sul nostro agire.
Ovviamente, sebbene questo testo sembri indirizzato principalmente agli uomini – e in effetti lo è – le donne non dovrebbero essere esenti dalla pratica della autocoscienza e della decostruzione, che serve, per l’appunto, a decostruire i modelli patriarcali che tutti, tutte e tuttu abbiamo interiorizzato e a proporne di nuovi; ricordiamo infatti che, quando si parla di smantellamento della cultura patriarcale, non ci si riferisce ad una “lotta tra i sessi”, come si legge o si sente ultimamente sui giornali o nei media, ma ad una struttura sociale in cui ognuno è ingabbiato in dei modelli che non perdonano nessuno, chi più (donne, persone transgender, persone razzializzate e ogni altra categoria subalterna e marginalizzata), chi meno (gli uomini).
In conclusione, proviamo a sostituire il “uomini vs donne” (cosiddetta lotta tra i sessi) con un bel “patriarcato vs persone che non vogliono rientrare in dei modelli che sfociano nella violenza e che credono che nessuna soggettività debba essere subalterna a un’altra”.
Ricordiamo che la violenza di genere segue una piramide, un’escalation, in cui ciò che sta alla base (battute sessiste/omofobe/transfobiche, oggettivazione della donna, linguaggio offensivo o sminuente) alimenta man mano gli strati più alti, fino ad arrivare alla sommità (violenza sessuale, abuso fisico, e poi – in ultimo – femminicidio).
Alessia Papavero, PRC Sicilia (circolo di Marsala, TP)