Parità di genere e diritto a competere: servono nuove regole

Con le Olimpiadi e le Paraolimpiadi di Parigi si è data visibilità ai diritti delle persone Lgbti+. Nel suo articolo “Parità formale o sostanziale? Lo sport è un banco di prova globale”, Manuela Claysset, responsabile Politiche di genere e diritti Uisp,  porta all’attenzione del lettore gli episodi omofobici e transfobici che hanno riguardato le atlete Imane Khelif e Valentina Petrillo, evidenziando l’importanza di dirigere lo sport verso una sostanziale parità di diritti, tutele e riconoscimenti per tutte le persone. 

Iniziamo la serie di interventi finalizzati ad approfondire questi temi con Alessia Tuselli, componente della commissione per le pari opportunità tra donna e uomo della provincia di Trento, sociologa e ricercatrice post doc presso il Centro Studi Interdisciplinari di Genere dell’Università di Trento.

Lo sport deve chiedersi come trovare un nuovo bilanciamento tra il diritto a competere ed equilibrio competitivo: lo sport ha bisogno di nuove regole?

“Questa domanda ha risposte diverse a seconda della prospettiva dalla quale la guardiamo – risponde Alessia Tuselli – serve un nuovo bilanciamento tra diritto a competere e regole sportive. La storia di Khelif richiama quella della velocista sudafricana Caster Semenya: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) hastabilito che l’atleta è stata discriminata per le regole sull’abbassamento dei livelli di testosterone nel sangue. Attenzione quindi: lo sport non può porsi al di fuori del rispetto dei diritti umani. Non si può imporre alle persone come devono essere rispetto ad una sfera così intima e privata. Occorre pensare a nuove prospettive, come ci insegna ad esempio lo sport paralimpico, creando delle categorie sulla base di parametri funzionali diversi, che permettono di misurare e comparare i livelli della prestazione. L’unico ente agonistico che recentemente, in termini di competizioni femminili, si sta ponendo queste domande è il Comitato Olimpico Internazionale, mentre le Federazioni Internazionali procedono con criteri sempre più restrittivi rispetto al Cio, andando in direzione opposta e contraria. Questa situazione mette in evidenza una forte discriminazione di genere, in quanto questi casi riguardano solo il settore femminile”.

E’ stato match alla pari quello tra Imane Khelif e Angela Carini?

Sì, è stato un match alla pari, considerando che ci sono atleti e atlete che hanno caratteristiche diverse. In questo caso, si trattava di due atlete che si dovevano sfidare in una disciplina dove non esiste pareggio, in cui alla fine sarebbe emersa la vincitrice ‘più forte’. La dimensione del vantaggio competitivo nello sport è un concetto esistente e si possono portare varie tesi a stegno. Una, ad esempio, è quella di crescere in Occidente avendo oggettivamente maggiori possibilità per nascita e per i contesti sociali nei quali si vive. Nascere negli Stati Uniti è molto diverso che nascere in Sud Africa o in Algeria. Imane Khelif e Angela Carini, in seguito a questo episodio, hanno costituito il significato odierno di essere donna nel mondo sportivo, dandone così una versione “giusta” e una “sbagliata”. Questa concezione retrograda ed escludente deve farci riflettere”.

Riprendendo la definizione da un suo articolo, qual è il significato odierno nello sport, e nella società, di ‘donna vera’? 

“Noi pensiamo che ci sia un modo “giusto e vero” di essere donna nello sport: quello che lo sport chiama “donne biologicamente nate tali o donne cisgender. Noi, collettivamente, accettiamo la convenzione che la biologia sia binaria, che le donne siano tutte uguali e gli uomini tutti uguali. E accettiamo che siano categorizzati in determinati schemi comuni. Ma ciò non è vero, in quanto anche la biologia è uno spettro. Essere una “donna vera” nello sport vuol dire essere esteticamente prestante, ma non mascolina. Ovvero: forte ma femminile, cioè forte ma non troppo. E allora, che cos’è la femminilità? Ce la siamo, per così dire, inventata e questa idea che ci facciamo rende tutto insicuro”.

Il suo ultimo libro si intitola “Fondamentali, Storie di atlete che hanno cambiato il gioco”. Ed uno dei capitoli è dedicato alla velocista sudafricana Caster Semenya. Le chiediamo: fino a che punto il gioco è disposto a farsi cambiare?

“Lo sport, come ogni spazio sociale, ha delle resistenze al cambiamento. Parlo di sport agonistico perchè è quello più visibile, non quello più importante. Ci sono delle spinte sociali al cambiamento che lo sport vive e che inevitabilmente si ritroverà davanti e dovrà affrontare. E’ incoraggiante che il Cio abbia ingaggiato come consulente l’ex atleta, medica sportiva, donna trangender Joanna Harper“.

L’Uisp, per la nuova stagione sportiva, ha adottato questo slogan: Immagina. Una spinta a guardare a migliori orizzonti e ad attivarsi per quello. E lei come ‘immagina’ lo sport del futuro?

“Immagino un futuro in cui ci sia la possibilità di costruire spazi sportivi differenti, per rispondere alle esigenze di tutte le persone. Partendo da una sfida che vede il corpo al centro, dove le regole sono fondamentali, sia nello sport sociale che agonistico. Ma per cambiare le regole bisogna poter dialogare con chi fa le regole. Ecco l’altro punto: immagino uno sport più aperto, più dialogante, che si percepisca meno slegato dagli altri ambiti sociali e culturalmente più sensibile alla contemporaneità. Uno sport, quindi, diversificato e che ragioni sulle sue retoriche per migliorarle”.

a cura di Ivano Maiorella, ha collaborato Michela Mattia