di Silvio Franco
Il PIL rappresenta certamente il principale indicatore utilizzato in economia. La sua capacità di resistere alle critiche, dalle più banali alle più articolate, e la sua abilità nel tenere banco nelle sedi più diverse, dai bar alle aule universitarie, dalle spiagge ai tavoli dei governi, è veramente straordinaria. Un protagonismo che, sostenuto dall’invadenza mediatica e dalla semplificazione politica, rende le cifre decimali della sua “crescita” l’oggetto di accesi dibattiti, sia fra addetti ai lavori che fra semplici cittadini.
Da questo punto di vista, scarsi effetti hanno avuto le affermazioni di Robert Kennedy («Il PIL misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta»), del premio Nobel per l’economia Simon Kuznets («Il Pil non è un indicatore del benessere delle persone. Bisogna sempre tenere presente la differenza tra quantità e qualità della crescita») o del comico Maurizio Crozza («Non sono le dimensioni del PIL che contano, ma come lo usi»).
Tuttavia, pur nella consapevolezza che il Pil e la sua dinamica non sono in grado di descrivere in misura soddisfacente la dimensione e la salute di un sistema economico, ha un qualche interesse utilizzare questo indicatore per sviluppare una riflessione molto generale sulle relazioni esistenti fra crescita economica, impatto ambientale e livello di sviluppo umano.
A tale scopo è necessario ricorrere ad altri indicatori, semplici, e quindi anch’essi criticabili, per valutare queste due ultime dimensioni.
Rispetto all’impatto ambientale, è possibile fare riferimento all’impronta ecologica (EF – Ecological Footprint), un indicatore ormai molto diffuso a livello mondiale che esprime, con riferimento alla popolazione di un determinato territorio, la superficie bioproduttiva necessaria a fornire le risorse consumate e ad assorbire i rifiuti prodotti. È proprio sulla base di questo indicatore, calcolato su base mondiale, e del suo confronto con la superficie bioproduttiva disponibile a livello planetario che viene individuato l’overshoot day, ossia il giorno dell’anno (nel 2019 è stato il 29 luglio) in cui la domanda globale di risorse naturali supera la loro disponibilità.
Per misurare il livello dello sviluppo umano a livello nazionale, invece, viene considerato un indicatore composito utilizzato dalle Nazioni Unite a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, noto come HDI (Human Development Index), il quale tiene conto di variabili che fanno a capo ad aspetti quali salute, istruzione e reddito.
In quanto segue si farà riferimento al valore assunto da questi indicatori (PIL pro capite in valore attuale, EF pro capite e HDI) in 160 paesi del mondo con riferimento al 2016, così come disponibile sulle banche dati rispettivamente di World Bank, Global Footprint Network e United Nations Development Program.
Una prima evidenza riguarda il forte legame fra questi tre indicatori, espresso dall’elevato valore del coefficiente di correlazione r che, come noto, assume valori compresi fra -1 e 1.
Se tale rapporto è abbastanza scontato per quanto riguarda PIL e HDI (r=0,711), anche considerando che il PIL è uno degli indicatori utilizzati per il calcolo dell’HDI stesso, qualche elemento di riflessione genera la stretta associazione fra PIL ed EF (r=0,768). Questa relazione fra dimensione del sistema economico e livello di impatto sulle risorse naturali, se letta in chiave di rapporto causa-effetto fra PIL ed EF, mostra come circa il 60% della differenza che si osserva nel PIL pro capite fra i diversi paesi sia da imputare al livello di sfruttamento delle risorse naturali. Inoltre, il fatto che il coefficiente di correlazione sia maggiore fra PIL ed EF che non fra PIL e HDI è un segnale del fatto che, in termini molto semplicistici, una più consistente dimensione del sistema economico ha maggiori impatti negativi sull’ambiente che non effetti positivi sullo sviluppo della popolazione, anche considerando ‒ vale la pena ripeterlo ‒ che il PIL è esplicitamente inserito fra le variabili che contribuiscono a definire tale sviluppo.
Ulteriori elementi di riflessione possono essere tratti dall’analisi dei tre indicatori andando a considerare, sempre attraverso il semplice strumento della correlazione, la loro variazione congiunta nel corso degli ultimi 20 anni. Con questo esercizio si pone in relazione la crescita economica osservata nei diversi paesi con la variazione nella domanda di risorse naturali e le ricadute sul benessere (inteso come incremento dello sviluppo umano) che essa è stata in grado di generare.
Ciò che si osserva è, in primo luogo, una corrispondenza abbastanza accentuata fra crescita e incremento della pressione ambientale (r=0,486), il che conferma come, in termini molto generali, l’aumento della dimensione del sistema economico sia sostenuto da un più inteso utilizzo di risorse naturali. L’aspetto più interessante, tuttavia, è la scarsa dipendenza fra crescita e variazione dell’indice di sviluppo (r=0,180), una dipendenza che tende ad annullarsi, o addirittura a diventare negativa, se si esclude l’incremento di HDI dovuto alla crescita del PIL stesso. Un più elevato sviluppo umano ‒ vale la pena sottolinearlo ‒ non si accompagna neanche ad un maggiore impatto sulle risorse naturali; il basso valore del coefficiente di correlazione (r=0,145) sembra evidenziarlo con chiarezza. In altri termini, se si volesse comprendere l’evoluzione del livello di sviluppo dei paesi del mondo negli ultimi venti anni, ci si accorgerebbe che la crescita economica e il consumo di risorse naturali ne spiegano meno del 10%.
Un’ultima notazione a riguardo del benessere, inteso come variazione dell’indice di sviluppo umano, riguarda la sua correlazione con il PIL pro capite, la quale assume un valore r=-0,417; un risultato che può essere interpretato come un’ulteriore conferma empirica del paradosso di Easterlin, secondo il quale, oltre determinati livelli di reddito, il benessere dipende sempre meno dalla ricchezza fino a ridursi in corrispondenza di suoi ulteriori incrementi.
Nonostante tutti gli evidenti limiti dell’analisi proposta, i risultati presentati sembrano evidenziare delle tendenze abbastanza chiare: il PIL, anche se molte delle critiche che lo riguardano sono senza dubbio giustificate, può raccontare cose interessanti, in particolare quando, abbandonandone l’autoreferenzialità, la sua entità e la sua crescita sono poste in relazione con aspetti che esulano dalla sfera economica e che invece toccano aspetti ambientali e sociali che riguardano il vissuto quotidiano dei cittadini.
Silvio Franco insegna presso il Dipartimento di Economia, Ingegneria, Società e Impresa (DEIM), dell’Università della Tuscia
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