Il Rapporto Italia 2024, giunto quest’anno alla 36a edizione, ruota attorno a 6 capitoli, ciascuno dei quali offre una lettura dicotomica della realtà esaminata. Ogni capitolo è illustrato attraverso 6 saggi e 60 schede fenomenologiche. Vengono affrontati, quindi, attraverso una lettura duale della realtà, temi che l’Eurispes ritiene rappresentativi della attualità politica, economica e sociale del nostro Paese.
Le dicotomie tematiche individuate per il Rapporto Italia 2024 sono: Certezza/Incertezza • Costruzione/Manutenzione • Legalità/Illegalità • Identità/Smarrimento • Severità/Permissività • Memoria/Oblio
Le considerazioni generali a firma del Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara, che aprono il Rapporto Italia tratteggiano la situazione del Paese e offrono una lettura di alcuni dei processi di cambiamento in atto: «Nel Rapporto dello scorso anno avevamo richiamato l’attenzione sul fatto che stavamo vivendo un periodo di tempi straordinari e che questa situazione, per molti aspetti inattesa e imprevedibile, richiedeva a tutti uno sforzo di adeguamento culturale, innanzitutto, quindi politico, economico e sociale. I tempi straordinari, dunque, ai quali facciamo riferimento da alcuni anni nelle nostre analisi, stanno determinando una situazione nella quale l’incertezza e l’instabilità sono diventate una norma, in grado di condizionare ogni nostra possibilità di ulteriore sviluppo.
Abbiamo compreso che il mondo è interconnesso e siamo informati di ogni accadimento negativo in tempo reale: il punto di novità risiede, a nostro avviso, nello iato crescente fra la mole della nostra consapevolezza informata su ciò che accade nel mondo e la nostra capacità di ridurre tutte queste informazioni a dimensioni cognitivamente gestibili».
«L’Italia è al bivio in riferimento alle scelte culturali, politiche ed economiche da compiere. Serve coraggio. Non ci stancheremo mai di ripetere che la prima risposta possibile sta nel “coraggio di avere coraggio”.
Accompagniamo il nostro ragionamento con una semplice metafora. Fate uno sforzo di immaginazione e ponete di fronte ai vostri occhi una lunga strada. Una strada piena di buche: grandi e piccole, superficiali e profonde, regolari e non. Si presentano di fronte a voi due precise opzioni alternative: tappare le buche? Oppure rifare una strada nuova, magari orientandola diversamente da quella attuale, così da evitare gli ostacoli delle radici degli alberi e altri elementi naturali che alterano la sua superficie? Insomma, è preferibile l’adattamento o la trasformazione? È preferibile orientarsi verso una politica che tenta di porre un argine alle emergenze con interventi anche adatti, ma non risolutivi, oppure una riforma profonda, faticosa anche complessa, che ristrutturi in modo lungimirante e funzionale un intero sistema?
Nella risposta che diamo c’è anche la nostra idea di futuro.
Non vi è dubbio, infatti, che quando operiamo sulla linea dell’adattamento stiamo cercando di migliorare, aggiustare situazioni, consolidate nel tempo, nelle quali siamo abituati ad operare, per cercare di armonizzarle alle nuove condizioni di crescita e progresso. Ben diverso è l’approccio della trasformazione. Quando il sentiero che stiamo percorrendo ci porta di fronte ad un bivio e ci obbliga a fare delle scelte di fondo: quale direzione prendere? Quale progetto elaborare e perseguire? Quale futuro costruire?
Siamo, dunque, arrivati ad un bivio, dobbiamo scegliere: adattamento o trasformazione? Patto per la conservazione, o patto per il futuro?
Ampliamento, Varietà e Mutazione: sono tre forze della natura scatenate dalla globalizzazione moderna che nel complesso stanno generando un quadro della realtà sempre più difficile da rappresentare, capire, analizzare. Ci troviamo dunque a dover fare fronte ad una complessità multidimensionale. Circostanza, questa, da segnalare, a nostro avviso, perché spiega molti fenomeni che caratterizzano la nostra epoca straordinaria, e contribuiscono a sostenere la necessità di progettare una strada nuova piuttosto che rappezzare quella vecchia.
Le crisi obbligano alla scelta e alla decisione e in tempi normali possono avere anche un effetto benefico, ma quella di oggi non ammette alternative. Non si tratta più di optare per una soluzione emergenziale o un’altra, per tattiche diverse; il percorso possibile è uno e uno solo: trasformazione, più precisamente trasformazione sistemica, indicativa della capacità di un sistema di rigenerarsi, bloccando ed evitando per tempo ogni possibile processo involutivo di regresso.
Del resto, l’Italia ha già vissuto in passato una simile situazione di rigenerazione sistemica quando dopo il periodo della ricostruzione, seguito alla fine della Seconda guerra mondiale, visse il cosiddetto “miracolo economico” che cambiò radicalmente la struttura del Paese. Non si può non ricordare, a questo proposito, il grande valore orientativo delle politiche codificate in precisi documenti pubblici di programmazione a medio e lungo termine, piani aziendali e accordi sindacali di ampio respiro, cioè in atti costruiti da forze politiche e attori privati di sviluppo, i quali, pur in situazioni di forte contrapposizione ideologica e politica, si dimostrarono decisi e capaci nel promuovere la trasformazione sistemica dell’Italia, ancorandola a precisi valori di equità sociale diffusa.
Si è operato invece affidandosi esclusivamente al presente, al giorno per giorno, con risposte parziali, spesso improvvisate, con misure utili al massimo a tamponare qualche falla. Il nostro ormai è diventato un Paese incardinato sul presente e il “presentismo” è diventato la nostra filosofia di vita. Tuttavia, l’Italia, nonostante le sue gravi difficoltà, ha le risorse umane, culturali ed economiche per uscire da una crisi sempre più sistemica e multidimensionale. Si tratta semplicemente di superare ‒ come già scrivevamo più di dieci anni fa ‒ la subcultura del “presentismo” e proiettarsi nel futuro».
«Il bivio che ci presentano i processi di trasformazione riguarda anche l’impatto dei cambiamenti climatici sul nostro Paese, la riorganizzazione del sistema di welfare per affrontare al meglio, con una efficace e lungimirante azione di co-progettazione e co-programmazione tra Stato-Imprese-Comunità, gli effetti di medio e lungo periodo dei cambiamenti demografici, dei flussi migratori, dell’inclusione sociale, delle modifiche strutturali che si stanno registrando con sempre maggiore intensità nel mondo del lavoro e dell’istruzione.
Il bivio della trasformazione riguarda anche il contributo che il nostro Paese può dare a livello internazionale per la costruzione di un nuovo ordine multilaterale che corregga la evidente usura del sistema attuale per formarne uno più valido nella composizione dei conflitti e nella imposizione della pace. Ripeto: il dovere, la volontà e la capacità di imporre la pace, quindi, ancora, nella riduzione delle tensioni diffuse nel mondo, nel recepire e risolvere le esigenze di quelle Comunità che maggiormente soffrono dei grandi squilibri che caratterizzano le attuali dinamiche di sviluppo.
È, dunque, una volta arrivati al bivio delle trasformazioni che si possono riaffermare il primato e la capacità di programmazione e di visione della politica, dell’etica, della scienza, della cultura, in una stretta e rinnovata sinergia».
«In conclusione, tra le innumerevoli possibilità di scelta che affollano il nostro orizzonte, vogliamo mettere l’accento su tre possibili vie d’uscita.
La prima, ritornare alla centralità dell’uomo. Oggi, si parla in filosofia di nuovo umanesimo di fronte alla potenza delle tecnologie e alle accresciute incertezze del futuro che ci attende. Di fronte alla complessità odierna, vogliamo dare, attraverso le parole del sociologo Edgar Morin, un’indicazione chiara, al pari di un imperativo categorico: «Per l’uomo è tempo di ritrovare se stesso». Si tratta dell’agire umano che si fa condiviso, riscopre l’etica, la solidarietà, la responsabilità, la corresponsabilità planetaria nella salvaguardia dell’ambiente, delle risorse disponibili, dei popoli.
La seconda, ripensare i sistemi avanzati secondo criteri di redistribuzione della ricchezza. Per la creazione di un sistema più equo delle risorse e del benessere all’interno delle nazioni, dove chi ha già molto, senza perdere quel molto, può reimmettere nel circuito condiviso, nelle economie, parte della propria ricchezza senza intaccare in modo considerevole il livello di prosperità raggiunto. Una tassa del 2% sui super-ricchi ridurrebbe le disuguaglianze e raccoglierebbe risorse fondamentali per la crescita delle nazioni.
Terzo, ma non trascurabile fattore: collocare l’educazione, insieme all’educazione ai media e alle nuove tecnologie, come elemento portante delle economie in termini di capacità di produzione di ricchezza.
In ultimo, un appello, forse ambizioso – o che alcuni giudicheranno utopico – ma possibile, alla comunità di studiosi, scienziati, filosofi, economisti, teologi, storici, tecnologi, insomma al nostro sistema dei saperi, insieme alla politica e ai cittadini, di contribuire ad una riflessione collettiva e condivisa, trasversale e multidisciplinare, per immaginare e stilare un nuovo “Patto per il Futuro” che veda protagonista della trasformazione la società nella sua interezza.
A ben vedere, in questo senso, vale la pena di richiamare proprio il concetto di utopia. Ritornare, insomma, a qualcosa che somigli alla religione o alla politica ma che le superi adeguandosi ai nostri tempi. Ritornare ai disegni impossibili, alle mete ardue da raggiungere, ai progetti complessi e difficili da realizzare. Non a caso, anche se in termini mistici, Kierkegaard parlava di una necessaria tensione dell’“io reale” verso l’“io ideale” come termine ultimo di una evoluzione inarrestabile e ineludibile.
Perché l’uomo per progredire da sempre ha bisogno, prima di ogni altro elemento, della convinzione di potercela fare, di avere un obiettivo da raggiungere.
Torniamo, infine, all’idea di uomo come potenza generatrice positiva e alla necessità di costruire una nuova etica condivisa. E si può andare verso il futuro anche attingendo al passato».