
Padova – Un accumulo scorretto di proteina amiloide all’interno di numerosi organi e tessuti può essere la causa dell’insorgenza di un gruppo eterogeneo di malattie chiamate amiloidosi. Uno degli organi principalmente coinvolti è il cuore, provocando una condizione nota come “amiloidosi cardiaca”. Le forme più frequenti e significative sono l’amiloidosi AL (a catene leggere) e l’amiloidosi ATTR (da transtiretina), quest’ultima presente in una forma ereditaria (hATTR) o acquisita (wild-type ATTR).
Dal punto di vista epidemiologico, l’amiloidosi cardiaca wtATTR, che interessa soprattutto gli uomini sopra i 70 anni, non sembra essere “una malattia così rara”, avendo registrato una vera e propria esplosione di casi, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Questa malattia si manifesta con una varietà di quadri di presentazione che includono aritmie e scompenso cardiaco, ma che può celarsi anche dietro a condizioni comuni come la stenosi aortica e l’ipertensione arteriosa. Se non curata, l’amiloidosi cardiaca può essere mortale, anche in breve tempo. Se i clinici ammettono che siamo di fronte a prospettive radiose di futuro in termini di innovazione terapeutica sulla quale serve investire, le associazioni dei pazienti sono convinte che in futuro non si potrà più prescindere dalla gestione multidisciplinare del malato.
Questa mattina a Padova si è fatto il punto con gli esperti nell’incontro organizzato da Motore Sanità dal titolo “Amiloidosi cardiaca in Regione Veneto. Innovazione terapeutica che spinge all’innovazione organizzativa, come omogeneizzare i percorsi?”.
Lo scenario attuale rivela un aumento generale dei casi di amiloidosi cardiaca, che va imputato all’avanzamento delle metodiche diagnostiche, molto più accessibili e non invasive, e alle nuove terapie che si sono rivelate efficaci nel rallentare la progressione della malattia e a ridurre la mortalità e le ospedalizzazioni. Nonostante l’attenzione sulla patologia si sia recentemente accesa grazie alla disponibilità di terapie innovative efficaci in grado di prevenire, arrestare o riassorbire il deposito della sostanza amiloide, la sottodiagnosi e i costi elevati dei nuovi farmaci restano un problema aperto. Secondo gli esperti, considerando tutti i sottogruppi dell’amiloidosi cardiaca, il tempo medio tra il rilevamento dei sintomi e la diagnosi varia tra 6 e 30 mesi, per quanto riguarda la ATTR, meno del 50% dei pazienti riceve la diagnosi entro i 6 mesi dall’esordio, e visto il numero elevato dei casi l’accesso alle terapie deve essere garantito a tutti i pazienti.
“Quella dell’amiloidosi è una delle tante storie di cambiamento della storia naturale di una malattia, avvenuto con anni di ricerca che ora stanno avendo delle chiare e importanti ricadute cliniche” ha spiegato Giorgio Perilongo, Professore ordinario di pediatria e coordinatore del dipartimento funzionale Malattie rare dell’AOU di Padova. “È un’epoca in cui numerose sono queste storie: l’atrofia muscolare spinale è una, l’anemia falciforme è un’altra, e tutta una serie di altre malattie rare per i quali fino a pochi anni fa non c’era alcuna speranza di miglioramento delle condizioni di vita. Invece, oggi si stanno aprendo delle prospettive radiose di futuro. Queste innovazioni terapeutiche hanno un costo che, però, deve essere visto come un investimento, perché condurre una vita da malati costa molto di più che non condurre una vita da sani”.
E sull’innovazione terapeutica è intervenuto anche il professore Alberto Cipriani, Professore Associato presso il Dipartimento di Scienze cardio-toraco-vascolari e Sanità pubblica dell’Università degli Studi di Padova. “L’innovazione terapeutica è clamorosa nell’amiloidosi cardiaca – ha sottolineato -: l’amiloidosi cardiaca è un vero paradigma di innovazione farmacologica perché con i farmaci si va ad aggredire ogni step della fisiopatologia della malattia”. Il professore ha ricordato che si tratta di una malattia dal forte impatto e che le diagnosi sono sempre di più. “Non è una patolgia così rara come viene definita. Inoltre, le evidenze scientifiche dimostrano che chi riceve la terapia negli stadi precoci ha un beneficio per la sopravvivenza”. “Per quanto riguarda l’impatto della spesa farmaceutica, sarà molto importante e aumenterà sempre di più, è necessaria, perciò, una programmazione delle risorse affinché ci sia un equo accesso alle nuove cure”.
Intanto le cardiologie del Veneto sono in rete per assicurare il miglior percorso diagnostico e terapeutico per il paziente con amiloidosi cardiaca. Presso il centro di riferimento dell’AOU di Padova, dal 2020 ad oggi sono stati diagnosticati circa 380 pazienti con una incidenza di nuovi casi che è raddoppiata in 2 anni. “Da circa 40 diagnosi all’anno stimiamo di arrivare alla fine del 2025 a oltre 100 casi diagnosticati, ne contiamo già 30 nel primo trimestre” ha proseguito Cipriani ricordando che un un nodo cruciale dell’amiloidosi cardiaca è l’età del paziente, fattore che può frenare il referral, il perfezionamento della diagnosi e le terapie stesse. “Questo aumento di casi riflette sia l’aumento della consapevolezza clinica rispetto alla malattia, sia l’aumento di diagnosi precoci, vale a dire che i pazienti vengono riferiti con uno stadio clinico di minore impatto rispetto al passato con diagnosi che sono quasi presintomatiche”.
La diagnosi precoce, azione chiave per attivare tempetivamente le cure
Biancamaria Fraccaro, Segretario regionale della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (SIMG), ha sottolineato l’importanza di una diagnosi precoce e il ruolo “sentinella” del medico di famiglia. “L’amiloidosi cardiaca è una malattia progressiva che può compromettere gravemente la funzione del cuore. Ci stiamo rendendo conto che probabilmente è meno rara di quanto sino ad ora previsto. Riconoscerla precocemente è fondamentale per attivare le cure e migliorare la qualità di vita dei pazienti. Il medico di famiglia svolge un ruolo cruciale nel sospettare questa patologia, indirizzando i pazienti al percorso diagnostico di approfondimento. Grazie alla continuità di cura e alla conoscenza approfondita della storia clinica dei pazienti, il medico di famiglia è il primo alleato nella lotta contro questa malattia. Tuttavia, per fare questo vanno definiti percorsi integrati di collaborazione multidisciplinare all’interno della riorganizzazione dell’assistenza territoriale, prevedendo inoltre le necessarie opportunità di aggiornamento e formazione continua. Informarsi e sensibilizzare è il primo passo per affrontare insieme questa sfida”.
Pazienti e familiari: “Il modello Padova” da esportare in altre regioni”
I pazienti colpiti da un sospetto diagnostico di amiloidosi hanno necessità di una rapida presa in carico per procedere alla delicata fase dell’individuazione tempestiva del tipo di amiloidosi che li affligge; successivamente hanno bisogno di essere seguiti e monitorati attentamente nell’applicazione della terapia più adatta. “Queste due fasi consecutive di approccio alla malattia – ha spiegato Rosa Maria Turano, Presidente AAMI (Associazione Amiloidosi Italiana) – presuppongono il coinvolgimento di più specialisti, per eseguire dapprima la diagnosi differenziale, proseguendo poi nell’affrontare tutti gli effetti della malattia e della cura individuata, che possono coinvolgere vari organi a diversi livelli. Questa situazione, in cui il paziente deve essere sottoposto ad esami e a valutazioni eterogenee, fa emergere con sempre maggior forza l’esigenza per il malato di non trovarsi da solo nell’affrontare scelte mediche e percorsi da seguire: da qui la necessità di un efficace coordinamento tra i vari specialisti”. “Padova è uno dei luoghi in Italia dove meglio si esprime questo coordinamento: gli ambulatori specialistici di cardiologia, di neurologia e di ematologia presso l’Azienda ospedaliera dell’Università di Padova offrono ai pazienti appuntamenti veloci e la possibilità di affrontare la malattia a tutto campo e sinergicamente, sia nella delicata fase diagnostica, che in quella successiva della gestione del malato e del monitoraggio della terapia” ha puntualizzato Turano. “I pazienti apprezzano non solo l’efficienza e la completezza della presa in carico, ma anche l’atteggiamento empatico del personale sanitario”. “Il nostro auspicio – ha concluso Rosa Maria Turano – come associazione di pazienti e familiari di pazienti, è che il “modello Padova” possa essere esportato in altre zone e in altre regioni”.