Il Servizio Sanitario Nazionale mostra, a 40 anni dalla nascita, rughe crescenti ed evidenti erosioni strutturali in termini di accessibilità, equità e qualità, che interessano anche pezzi importanti della vita professionale dei medici e dei dirigenti sanitari.
La tempesta perfetta che lo ha investito nasce dall’onda lunga del definanziamento per nutrirsi di esplosione dei fondi sanitari, trainati dal welfare aziendale, carenza di specialisti, per assenza di programmazione ed impoverimento, professionale, economico e dei diritti del lavoro ospedaliero, richieste di autonomia differenziata.
Negli ultimi anni il combinato disposto dei vincoli di finanza pubblica, delle scelte di politica allocativa, della crescita della spesa sanitaria privata, giunta alla soglia dei 40 miliardi, il 91% out of pocket, con il sostegno di una raffinata strategia di marketing, ha rilanciato con forza il tema della necessità di un secondo e terzo pilastro privato e/o di un universalismo selettivo.
L’Anaao Assomed respinge al mittente la proposta di secondi e terzi pilastri, da erigere sulle macerie del primo e la falsa alternativa tra aumento di tasse e calo di servizi. Il che è esattamente quanto sta oggi accadendo simultaneamente alla sanità pubblica, tra tagli al finanziamento delle cure ed impennate di addizionali IRPEF e di ticket, diventati con il superticket di 10 euro un vero e proprio driver di prestazioni verso la sanità privata.
Potrebbe bene essere finalizzato alla missione salute il recupero della spesa fiscale concessa ai fondi sanitari (quasi 4 mld/anno), specie quella legata al boom del welfare aziendale, con il quale la classe operaia baratta salario con mutualità, segando l’albero che pure ha contribuito a piantare. Con evidenti i profili di iniquità, rappresentando il risparmio di imposta per alcuni un onere a carico di tutti i cittadini, anche i meno abbienti.
Il secondo patogeno che colpisce la sanita pubblica è costituito da un neo- federalismo “a geometria variabile”, che il nuovo Governo intenderebbe assecondare. Con il rischio, però, di favorire ulteriormente le spinte verso l’egoismo territoriale ed il sovranismo regionale, di ridimensionare il contributo fiscale delle Regioni più ricche e di aumentare l’entropia istituzionale con relative diseguaglianze. In un Sistema sanitario già lacerato da importanti differenze, nella stessa erogazione dei LEA, può venir meno definitivamente il concetto stesso di Servizio sanitario nazionale e di politica sanitaria nazionale, con uno strappo definitivo tra Nord e Sud. Per questa via, il diritto alla salute cessa di essere un bene pubblico nazionale per assumere una valenza locale, che diventa così la fonte primaria del diritto, con una perdita complessiva di coesione sociale ed una accentuazione degli squilibri tra Regioni più ricche e più povere. Ma le diseguaglianze delegittimano la democrazia e le differenze rischiano di diventare divaricazioni, a scapito della stessa unità nazionale.
L’unitarietà del SSN in un contesto federalista esige la presenza di alcuni fili verticali. Non solo i LEA, ma lo stato giuridico del personale, un meccanismo di perequazione finanziaria gestito dallo Stato a favore delle regioni svantaggiate con indicatori diversi da quelli demografici, i requisiti di accreditamento di strutture e professionisti, l’individuazione di livelli essenziali organizzativi omogenei, l’ordinamento delle professioni, gli accordi contrattuali e convenzionali.
Il diritto alla salute non può perdere una dimensione nazionale, perchè forti sono i rischi per l’integrazione sociale e l’unità del Paese se i cittadini non condividono gli stessi principi di giustizia sociale in un ambito rilevante come quello della salute.
Il terzo fattore di crisi è costituito dalla carenza di risorse umane, frutto non solo di assenza di programmazione dei fabbisogni ma anche della sottrazione di valore a quel capitale umano il cui lavoro è valore fondante del SSN. Il lavoro ospedaliero non è più appetibile di fronte alle sirene del privato e delle convenzioni, che godono anche di un vantaggio fiscale sconosciuto al mondo della dipendenza. La carenza, misurabile in 16.700 unità fino al 2025, è già oggi evidente nei concorsi deserti, nel ricorso ai cosiddetti “medici a gettone“ ed ai medici pensionati fino alla chiusura di servizi sanitari.
Gli organici ridotti accrescono il disagio peggiorando le condizioni di lavoro fino a rendere la pensione un traguardo agognato. Così “Quota 100”, nonostante le penalizzazioni che prevede, potrebbe apparire come un’opportunità allettante accentuando la gobba demografica con l’anticipo di ben 5 classi di età.
Aumentare oggi gli ingressi alla scuola di Medicina e Chirurgia rappresenta una scelta irrazionale oltre che uno spreco di risorse pubbliche, valutabili in circa 100.000 euro per ogni studente che dal liceo arriva alla laurea, disponibili peraltro per il mondo del lavoro solo tra 11 o 12 anni, quando la curva dei pensionamenti sarà in forte calo. Ciò che serve oggi è una riforma strutturale del sistema di formazione post laurea ed un incremento dei contratti di formazione specialistica fino ad almeno 10mila all’anno, iniziando a recuperare i contratti persi dal Miur, e già finanziati, circa 1000 negli ultimi due anni.
Impoverire la sanità pubblica, svuotarla di competenze professionali e di innovazioni tecnologiche, significa condannarla a non reggere l’onda d’urto della crisi e ad essere spazzata via, a scapito del grado di civiltà dell’intero Paese.
Decapitalizzare il lavoro dei professionisti, anche attraverso la negazione dello strumento contrattuale, significa mettere le premesse per il collasso della sanità pubblica, la più grande infrastruttura civile e sociale che abbiamo costruito.