Secondo uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine, un farmaco attualmente utilizzato per la malattia renale cronica nei pazienti con diabete di tipo 2, ha dimostrato di ridurre il rischio di peggioramento e di morte cardiovascolare negli individui in cui il cuore non è dilatato ma conduce a una forma di scompenso cardiaco. Il farmaco, finerenone,potrebbe rappresentare una nuova opzione terapeutica efficace in questi pazienti per i quali sono pochi i trattamenti disponibili.
“Negli ultimi 20-25 anni abbiamo fatto passi da gigante nel campo dell’insufficienza cardiaca, ma perlopiù per il tipo chiamato con frazione di eiezione ridotta, cioè quando il cuore non pompa molto bene – dichiara Pasquale Perrone Filardi, presidente SIC e direttore della scuola di specializzazione dell’Università Federico II di Napoli – Nella forma in cui, però, il cuore si contrae normalmente, ma i ventricoli si irrigidiscono e non sono in grado di riempirsi in modo corretto (scompenso cardiaco con frazione di eiezione lievemente ridotta o conservata), abbiamo una sola classe di farmaci che sono le gliflozine. Sono dunque limitati i trattamenti disponibili per questo tipo di pazienti in continua crescita per via dell’invecchiamento della popolazione. Oggi, per la prima volta, si aggiunge un nuovo farmaco bloccante non steroideo, in grado di influenzare favorevolmente questa forma di scompenso cardiaco difficile da gestire e trattare”.
Lo scompenso cardiaco rappresenta un grave problema di salute pubblica che colpisce 15 milioni di individui in Europa e circa 1 milione in Italia e si stima che quasi la metà abbia una frazione di eiezione leggermente ridotta. Nel nostro Paese, la maggior parte dei malati ha più di 70 anni e lo scompenso cardiaco è la causa principale di ricovero negli over 65, con esito fatale nel 50% dei pazienti entro 5 anni dalla diagnosi, se non adeguatamente trattati.
“Questa patologia cronica causa un peggioramento della qualità della vita e della capacità di affrontare le attività quotidiane e frequenti ricoveri per mancanza di respiro e accumulo di liquidi nell’organismo – spiega Perrone Filardi –. La terapia dello scompenso si è rafforzata da poco più di due anni, con una nuova classe di farmaci, le gliflozine, nate come antidiabetici, che hanno mostrato di essere efficaci in tutti i pazienti con insufficienza cardiaca, anche se non diabetici, e indipendentemente dalla gravità della malattia. Ma il nuovo studio suggerisce che il finerenone potrebbe potenzialmente rappresentare un secondo pilastro della terapia nei pazienti con insufficienza cardiaca lieve.”
Lo studio di fase III, randomizzato e in doppio cieco, coordinato da Scott Solomon, del Brigham and Women’s Hospital di Boston, ha coinvolto più di 6000 persone provenienti da 37 paesi con insufficienza cardiaca a frazione di eiezione leggermente ridotta o conservata. Tra settembre 2020 e gennaio 2023, i pazienti sono stati divisi in due gruppi: a 3000 è stata somministrata una dose giornaliera di finerenone, mentre agli altri 3000 è stato somministrato un placebo. I risultati hanno dimostrato che il farmaco ha ridotto del 16% il rischio di ricovero e morte rispetto al placebo, indipendentemente dal fatto che i pazienti utilizzassero già gliflozine, unica opzione di trattamento con una forte raccomandazione delle linee guida. “Il finerenone agisce in modo differente rispetto ad altri farmaci nel ridurre il rischio cardiovascolare bloccando il recettore dell’ormone aldosterone che trattiene sale e acqua nei reni, e riduce così i livelli di potassio che possono danneggiare il cuore – sottolinea Perrone Filardi -.Quando il finerenone blocca il recettore impedisce la perdita di potassio che mette a rischio i pazienti”.
“Il nuovo studio fornisce supporto alla terapia additiva con finerenone, tuttavia sono certamente necessari ulteriori dati per rendere realmente rilevanti i risultati per i pazienti – conclude il presidente SIC -. La ricerca sollecita anche la classe medica a ottenere una diagnosi che sia il più precoce possibile”.