La recente sentenza della Cassazione, sesta sezione penale, del 22 ottobre 2019, ha escluso che l’associazione definita a livello giornalistico “mafia capitale” possa rientrare nell’ambito dell’associazione di tipo mafioso, prevista e punita dall’art. 416 bis del Codice penale, bensì nel più vasto e generico contesto normativo dell’associazione a delinquere.
La natura di associazione mafiosa era stata negata in primo grado, ma riconosciuta in Corte d’Appello, con sentenza dell’11 settembre 2018, a riprova dell’esistenza di un contrasto interpretativo non ancora sufficientemente definito. Ne sono segno evidente le polemiche seguite alla sentenza della Cassazione, anche per il tipo di pronuncia adottata, l’annullamento senza rinvio, se non per la rideterminazione della pena, che sarà necessariamente più lieve in conseguenza della meno grave tipologia di reato.
Polemiche dettate anche dalla indiscussa presenza ‒ all’interno della complessiva attività di quella associazione di episodi ‒ oltre che di corruzione di pubblici funzionari ed esponenti politici, anche di intimidazione e di violenza ad opera del suo protagonista, Massimo Carminati, di cui è ben nota la pregressa appartenenza criminale alla banda della Magliana.
Altra conseguenza di non poco rilievo è la sopravvenuta carenza delle condizioni normative che legittimano l’applicazione del regime detentivo speciale previsto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, riservato ai soli indagati e condannati per reati di mafia e terrorismo.
Non sono ancora state depositate le motivazioni della sentenza che daranno ampio conto del percorso argomentativo attraverso il quale la Suprema Corte è giunta ad adottare una decisione, destinata a fare da autorevole precedente giudiziario (anche se non vincolante) nei casi nei quali la tipologia associativa non corrisponde pienamente alla fattispecie di reato minutamente definita nell’art. 416 bis, come ad esempio le (numerose) associazioni criminali straniere operanti sul nostro territorio. Sarà necessario pertanto ritornare sull’argomento per un più approfondito esame della questione, mentre può, sin da ora, affrontare il problema di una rivisitazione critica della legislazione adottata nel settembre del 1982 con la legge 13 settembre n. 646, (legge meglio nota come Rognoni-La Torre), che fece seguito agli omicidi dell’on. Pio La Torre del 30 aprile e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa del 2 settembre di quell’anno.
Il termine mafia entrò per la prima volta nel nostro Codice penale e, da allora, caratterizzò la nostra legislazione in tema di contrasto alle associazioni mafiose e di tipo similare (’Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita che completano il panorama delle organizzazioni mafiose con caratteristiche comuni a quelle della mafia siciliana). La nuova norma servì sicuramente a definire un fenomeno associativo che, oltre agli aspetti organizzativi e finalistici, si giovava del “metodo mafioso” costituito dall’«avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva», metodo sicuramente estraneo a quello delle comuni associazioni a delinquere, operanti al fine di commettere serie indeterminate di reati di qualsiasi genere.
Il tempo passa e le mafie si sono modificate rispetto a quella che era la loro struttura e le loro modalità operative. Oggi, al controllo del territorio si accompagna e spesso si sostituisce il controllo “funzionale” di settori di attività (ad esempio, quello del ciclo del cemento, di settori merceologici – pesca, carne, agricoltura, giochi d’azzardo, grande distribuzione – e così via. Ne sono esempio le nuove definizioni di “agromafie”, “ecomafie”, e via dicendo. Oltre a ciò, nel corso degli anni Novanta le mafie di matrice italiana, si sono diffuse su tutto il territorio nazionale, prima, e su quello europeo ed internazionale dopo. Oggi sono presenti in ogni parte del mondo, e dominano dal mercato delle droghe di qualsiasi tipo, a quello delle armi, delle scorie tossiche e nucleari, a quello, più recentemente, della tratta degli esseri umani.
Ad esse si sono aggiunte, e questa appare la novità di maggiore rilievo, nuove mafie, di varia origine, alcune di tipo tradizionale (mafia turca, russa, cinese) altre formatesi in tempi relativamente recenti (mafia nigeriana, albanese e altre ancora). Le une e le altre, nel giro di qualche decennio, si sono collegate e diffuse in Europa e nel mondo con grande rapidità, hanno affiancato, senza indebolire e, tanto meno, sostituire, le mafie tradizionali, hanno insomma “unificato” il mondo, secondo la logica della globalizzazione criminale, favorite in questo dalla caduta del Muro di Berlino e dalle conseguenti liberalizzazioni, dall’espansione delle comunicazioni e da strumenti informatici via Internet.
Anche le organizzazioni qualificate come terroristiche hanno seguito la globalizzazione, sia per la struttura organizzativa di tipo capillare, che consente loro di essere presenti simultaneamente in molti paesi anche assai distanti tra loro e di agire in maniera coordinata, sia per la possibilità di portare i propri “attacchi” in paesi e continenti diversi da quelli di origine, come insegna drammaticamente la storia dagli attacchi alle Torri gemelle di New York del 2001, agli attentati in Francia, Belgio, Germania, Spagna, Gran Bretagna ad opera dell’Isis.
I caratteri comuni della criminalità transnazionale mafiosa e terroristica, divennero più evidenti e la ricerca di punti di contatto assai più agevole, a differenza di quando i fenomeni tradizionali di tipo mafioso degni di questo nome erano limitati alla nostra Penisola, mentre quelli di tipo “terroristico”, accomunati da matrice e finalità di tipo politico, al di là delle diversità anch’esse profonde di organizzazione, di metodo, di finalità, che pure caratterizzavano ciascuna di loro, si manifestavano in tempi, circostanze ed intensità diverse, tanto da impedire un’analisi congiunta in grado di coglierne le analogie strutturali che pure esistevano.
Fermandoci per il momento all’esame dei fenomeni mafiosi, accanto ai mutamenti di tipo organizzativo, si sono aggiunti quelli di tipo metodologico. L’atto di intimidazione mirata è usato sempre meno e solo in casi di stretta necessità. Serve ancora come richiamo alla memoria storica della tradizionale capacità di intimidazione (una sorta di capitale sociale, facilmente spendibile, già sufficiente a piegare la resistenza delle vittime. Si tratta in questo caso di quella che può definirsi “intimidazione ambientale”). Molto più efficace risulta essere l’uso della corruzione; è meno eclatante, non desta allarme sociale, crea cointeressenze con le vittime. Ricatto, usura ed altri tipi di violenza ne sono il versante economico, non più a vantaggio, ma in danno delle vittime. A scanso di equivoci, non si intende con questo sottovalutare l’attuale capacità intimidatoria delle mafie, ché anzi quanto più sono silenti, tanto più sono pericolose. Sono infatti esse stesse ad avere interesse a “non alzare i toni”, ad assimilare i metodi, anche quelli di lotta, del capitalismo finanziario e imprenditoriale, spesso non meno feroci e aggressivi. Si aggiunga ancora come con tali metodi sfugge la possibilità di applicare il modello mafioso a fenomeni del tutto originali, come i “comitati d’affari”, le “cricche”, le associazioni miste “massonico-mafiose”, le curve da stadio, con il loro mix di eversione, violenza organizzata, controllo mafioso del bagarinaggio, e così via esemplificando.
Come spesso accade nel mondo del diritto, l’eccesso di caratteristiche definitorie di una fattispecie normativa (penale o civile che sia) ne riduce inevitabilmente l’applicazione, conseguenza di non poco rilievo in presenza di mutazioni, che in materia di fenomeni criminali sono assai frequenti, in parallelo al rapido adattamento che essi sono in grado di assumere. Inoltre, non sempre è possibile inseguire tali mutamenti mediante continui aggiustamenti normativi, sia per l’inevitabile scarto temporale della risposta legislativa, sia perché nocivi per la certezza del diritto e la stabilità della giurisprudenza.
Altra considerazione è quella che vede l’Italia unico paese al mondo a qualificare con il termine “mafiosa” un’associazione criminale, sia perché titolare esclusiva della presenza di ben quattro associazioni di tipo mafioso all’interno del suo territorio, sia per la ritrosia, soprattutto del diritto anglosassone, a punire un’associazione criminale per il solo fatto di esistere senza necessità di prove circa la commissione dei singoli reati-fine (l’art. 416 bis, al primo comma, punisce invece i promotori, gli organizzatori, i capi, di una organizzazione mafiosa “per ciò solo”), sia, per ultimo, per l’uso corrente, a livello europeo ed internazionale, della terminologia convenzionale “criminalità organizzata”, usata nelle direttive comunitarie, nel Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea, nella Convenzione di Palermo del Duemila sul crimine transnazionale. Ed è da qui che occorrerebbe muovere per offrire una soluzione anche al problema sollevato con la sentenza della Corte di Cassazione e, nel contempo, sprovincializzare la nostra legislazione nella prospettiva della auspicabile edificazione di un diritto penale europeo, comune e condiviso. Sotto questo riguardo, appaiono auspici senza fondamento quelli di alcuni magistrati che spingono per una “esportazione” del modello normativo italiano nel resto dell’Europa, senza sapere che già da tempo il reato associativo è stato introdotto in alcuni paesi, sia pure in forme compatibili con la tradizione e l’ordinamento giuridico di ciascuno di essi. Introdurre il termine “mafia” equivarrebbe, peraltro, all’ammissione della sua presenza anche in altri Stati; ammissione inaccettabile anche laddove la cronaca ne dà frequente conferma.
Già nel libro L’asse del Caos (Myrianne Coen e Vincenzo Macrì – Aracne 2015) erano state messe in evidenza le analogie tra associazioni mafiose e associazioni terroristiche, quanto ad organizzazione interna, modalità operative, reciproci collegamenti, tipologia dei reati strumentali al proprio finanziamento. Singolare era poi l’adozione da parte delle mafie di operazioni di tipo terroristico (la stagione stragista di Cosa Nostra, quella continua e ancora più cruenta dei narcos messicani), e, per converso, l’utilizzo da parte delle organizzazioni terroristiche (l’Isis in primo luogo, oltre Ira, Eta, Al Qaeda e altre ancora) di reati di tipo comune, come sequestri di persona, traffici di droga, di armi, di esseri umani, di reperti archeologici, di petrolio a fini di autofinanziamento.
I fenomeni criminali sopra descritti potrebbero dunque essere inquadrati in un’unica categoria, quella della criminalità organizzata, con una distinzione tra quella a fini economici e di potere finanziario e quella per fini ideologici (compreso il fondamentalismo religioso) e politici (associazioni eversive e terroristiche). Le pene da prevedere dovrebbero essere rapportate all’importanza dei beni minacciati, con la previsione di aggravanti specifiche per ciascuna di esse. Si sfuggirebbe in tal modo alle difficoltà oggettive di ricomprendere nel modello associativo mafioso fenomeni criminali spesso alquanto diversi, non ricorrendovi gli elementi caratterizzanti tipici dell’associazione di tipo mafioso. Consentirebbe molto più facilmente l’introduzione a livello comunitario, oltre alle pene detentive, di misure accessorie di tipo patrimoniale, come sequestro e confisca dei patrimoni illecitamente acquisiti, già timidamente avviata in alcuni ordinamenti statali dell’Unione europea.
Vincenzo Macrì – Presidente dell’Osservatorio su Salute, Previdenza e Legalità Eurispes/Enpam