È uno dei risultati più avvilenti emersi dall’indagine Istat sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca: l’istituto nazionale di statistica ha rilevato che nel 2018, a sei anni dal conseguimento del dottorato, appena il 10% di coloro che conseguono un dottorato riescono a svolgere poi come professione l’insegnamento, ovvero uno degli sbocchi più naturali per chi consegue il titolo superiore alla laurea.
In Italia solo un dottore di ricerca su dieci lavora come professore accademico o ricercatore universitario. Tra coloro che riescono nell’impresa di diventare professore universitario, circa il 40% opera presso lo stesso ateneo in cui è stato conseguito il dottorato. Si tratta di dati particolarmente avvilenti. Ed è particolarmente significativo un altro dato stimato dall’Istat: tra i dottori di ricerca che vivono all’estero, la percentuale di coloro che diventano professori sale addirittura al 25%.
Secondo il sindacato Anief, questi numeri, questo ennesimo record di cui vergognarsi dopo la metà dei laureati rispetto alla media europea, dovrebbero fare riflettere: “Quella della mancata progressione professionale in ambito universitario – spiega il suo presidente nazionale Marcello Pacifico – è una piaga che sta tutta sulla coscienza dei nostri governatori. Noi lo sosteniamo da dieci anni, ovvero dalla nostra nascita. E proponiamo soluzioni in ogni occasione possibile. Lo abbiamo fatto alcune settimane fa, chiedendo per l’ambito universitario, nel testo della legge di Stabilità, di ripartire per forza di cose dalla stabilizzazione dei ricercatori, a loro volta impossibilitati da anni nel passare al ruolo della docenza per via di una norma priva di senso per un Paese che dovrebbe essere all’avanguardia sul fronte della formazione a tutti i livelli”.
“Lo abbiamo fatto, di nuovo, anche in questi giorni, attraverso – continua il sindacalista autonomo – la richiesta di modifica dell’articolo 4, comma 1, del decreto Concretezza, collegato alla legge di Stabilità, il DDL S. 920, attraverso cui si punta al rilancio della figura del ricercatore a tempo indeterminato, con la creazione di un albo nazionale, nell’ottica dell’innovazione e in relazione al rilancio del sistema-Paese”.
Con l’emendamento, presentato dallo stesso presidente Anief e segretario confederale Cisal all’XI Commissione del Senato, si chiede “in deroga all’articolo 24, della legge 30 dicembre 2010, n. 240”che le Università possano “continuare ad attuare per l’a.a. 2019/2020 le procedure di valutazione per il reclutamento dei ricercatori a tempo indeterminato come disposte dai commi 3 e 5 della legge 9 gennaio 2009, n. 1. A tal fine, i candidati in possesso del dottorato di ricerca o di un titolo riconosciuto equipollente anche conseguito all’estero, con almeno tre insegnamenti universitari a contratto, con pubblicazioni di rilevanza anche internazionale, che hanno ottenuto un assegno di ricerca della durata di almeno quarantotto mesi anche non continuativi di cui all’articolo 51, comma 6, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, (o di contratti a tempo determinato o di formazione, retribuiti di collaborazione coordinata e continuativa, o a progetto, di rapporti di collaborazione retribuita equipollenti ai precedenti presso università o enti di ricerca della stessa durata), sono inseriti a domanda in un albo nazionale dei ricercatori dalla comprovata esperienza in base al settore scientifico-disciplinare di afferenza, che non dà diritto alla docenza e rimane valido per un triennio, dietro valutazione dei titoli e dei curricula scientifici e didattici posseduti”.
Ne consegue che gli atenei, “con chiamata diretta”, qualora si approvasse tale emendamento, potrebbero “attingere dall’albo nazionale dei ricercatori dalla comprovata esperienza per l’assunzione dei ricercatori a tempo indeterminato con modalità da disciplinare con decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca da emanare entro 60 giorni dall’approvazione della presente legge.”