La provincia italiana in cui l’integrazione dei migranti sembra essersi realizzata meglio e di più è Vicenza, che occupa la prima posizione del ranking elaborato dal Censis. Seguono altre province del Nord e del Centro, come Brescia, Pesaro e Urbino, Bergamo e Pistoia. Nelle prime 20 posizioni non compare neanche una provincia del Mezzogiorno.
La prima è Teramo, che si trova in 33ª posizione. La posizione geografica e la dimensione della comunità di accoglienza sembrano essere i due driver principali che hanno guidato i processi d’integrazione sul territorio. Il ranking dell’integrazione economica colloca al 1° posto Prato, dove la propensione all’imprenditorialità dei cittadini cinesi consente loro di conseguire redditi e patrimoni consistenti. Il ranking dell’integrazione sociale è guidato da Trieste, seguita da Biella e da Genova (è questa l’unica dimensione in cui si affacciano nelle posizioni di testa le grandi aree urbane). Il ranking dell’integrazione demografica colloca Brescia al 1° posto, seguono Bergamo, Lodi, Vicenza, Cremona, Bolzano e Treviso.
Primi tra gli ultimi: gli stranieri poveri. Le famiglie residenti in Italia che si trovano in condizione di povertà assoluta sono 1.793.000, pari al 6,9% del totale (nel 2016 erano il 6,3%). Nell’ultimo anno sono aumentate del 10,6%. Le famiglie di soli stranieri che versano in condizione di miseria sono 455.000 (il 29,2% del totale): una famiglia di stranieri su 3. Negli ultimi 4 anni, a fronte di una crescita media del 22% delle famiglie in stato di grave indigenza, le famiglie italiane povere sono cresciute dell’11,5%, le famiglie di soli stranieri sono cresciute del 20,6% e quelle miste addirittura del 183,1%. Ancora più preoccupanti sono i dati relativi agli individui a rischio di povertà relativa. In Italia sono il 17,5% dei nativi (media Ue: 15,5%), il 28,9% degli stranieri comunitari (media Ue: 22,3%) e il 41,5% dei cittadini non comunitari (media Ue: 38,8%). Negli ultimi 10 anni, mentre i cittadini italiani in situazione di povertà relativa sono stazionari, gli stranieri comunitari a rischio sono aumentati del 13,6% e i non comunitari del 12,7%. Nello stesso periodo, in Europa i nativi a rischio di indigenza sono stabili, i cittadini comunitari si sono ridotti dell’8,7%, i cittadini non comunitari sono aumentati del 9,9%. Solo la Spagna presenta un quadro peggiore di quello italiano, con a rischio di povertà il 17,8% dei nativi, il 38,9% dei cittadini stranieri comunitari e il 52% di quelli non comunitari.
La scomparsa dei migranti economici. Nel 2016 i permessi per motivo di lavoro sono stati 12.873, pari al 5,7% del totale. Per avere un’idea di quanto si sono ridotti, basti pensare che nel 2010, quando la crisi economica era già in corso (ma c’era appena stata una regolarizzazione), erano stati 358.870, pari al 60% del totale. Nel 2011, al netto degli effetti della regolarizzazione, scendono a 124.544, per poi continuare a calare di anno in anno. Per un migrante entrare in Italia per lavoro è diventato praticamente impossibile: alla crisi economica ha corrisposto una riduzione degli ingressi previsti dal Decreto flussi e la fine delle sanatorie. Il rischio è che un aumento dei controlli e un restringimento della normativa portino a una situazione nella quale il nostro Paese apparirà desiderabile solamente per una ridotta porzione di migranti: le persone più deboli dal punto di vista economico e sociale. La conferma viene dai dati relativi al livello di istruzione dei cittadini stranieri non comunitari che vivono nei diversi Paesi europei, da cui risulta che l’Italia si trova all’ultimo posto, con una quota del 61,5% con un basso livello di istruzione (al massimo la scuola secondaria di primo grado), a fronte di una media europea pari al 46,2%. In Spagna la percentuale è del 54%, 51,3% in Francia, 49,8% in Grecia, 49% in Germania. In Irlanda solo l’8,1% dei cittadini non comunitari residenti ha un basso livello di istruzione e nel Regno Unito la quota è pari al 17,1%.
Ingiustizia è fatta. Sono 15,6 milioni (pari al 30,7% della popolazione adulta) gli italiani che nell’ultimo biennio hanno rinunciato a intraprendere un’azione giudiziaria volta a far valere un proprio diritto. Si tratta di un comportamento diffuso trasversalmente nella popolazione, ma che si presenta con più intensità nel Sud (37,5%). Tra i motivi al primo posto ci sono i costi eccessivi (29,4%), poi la lunghezza dei tempi necessari per arrivare a un giudizio definitivo (26,5%). C’è poi la sfiducia nella magistratura e nel funzionamento della giustizia (16,2%). Evidentemente non è diffusa la consapevolezza degli sforzi che si stanno facendo per migliorare qualità e ed efficienza del nostro sistema giudiziario. Il 38,2% degli italiani ritiene che nell’ultimo anno la giustizia è peggiorata (nel Sud la quota sale al 41,1%). Solo il 5,7% è convinto invece che la situazione sia migliorata. Il 52,6% ritiene che non ci sono stati cambiamenti. Il risultato è che 7 italiani su 10 pensano che il sistema giudiziario non garantisca pienamente la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo (solo il 18,2% ritiene che tali diritti siano assicurati).
Sempre più prodotti a rischio, soprattutto per i bambini. Nel 2017 gli articoli non sicuri sequestrati da Agenzia delle Dogane e Guardia di Finanza sono stati quasi 125 milioni in 3.976 operazioni, in crescita costante nell’ultimo decennio (+1.215,8%), quando complessivamente sono stati condotti 28.377 sequestri e confiscati 915 milioni di articoli che avrebbero messo a rischio la salute dei consumatori. I casi più frequenti riguardano il rinvenimento di prodotti privi della marcatura Ce o che al suo posto hanno il marchio China Export, del tutto simile a quello comunitario. Al primo posto tra i prodotti non sicuri sequestrati nell’ultimo anno ci sono 35 milioni di accessori di abbigliamento, tra cui soprattutto cinte, borse, portafogli. Seguono 18 milioni di giochi e giocattoli, poi 17 milioni di profumi e cosmetici. Nell’ultimo decennio il record è però dei 270 milioni di giocattoli sequestrati, destinati a finire nelle mani di bambini. Ai giochi seguono i 132 milioni di accessori di abbigliamento e i 90 milioni di apparecchi elettrici.