Il Dottor Auschwitz, l’angelo della morte: Josef Mengele
Era capace di essere gentile con i bambini da
renderli molto affezionati a lui, da portare loro
zucchero, da pensare a piccoli particolari della loro
vita quotidiana e da fare cose che noi ammiravamo
genuinamente … E poi, subito dopo … il fumo dei
crematori, e questi bambini, domani o fra mezz’ora,
li avrebbe mandati là. Ecco dov’era l’anomalia.
Un medico prigioniero ad Auschwitz
(Robert Jay Lifton, I medici nazisti, Bur, Bergamo 2010, p. 439)
In occasione della giornata della memoria, dinnanzi al riecheggiare in maniera tangibile di sentimenti antisemiti, di odio e di disprezzo per la dignità umana, dinanzi al serpeggiare di nuove forme di totalitarismi del pensiero e, in tempi di fotogrammi da Marte, di adesioni e di simpatie allo spirito nazi-fascista spesso celato in e da leader o semplicemente da esseri umani dal corredo etico apparentemente corretto, dinanzi alla mortificazione del fatto storico, questo blog offre uno spunto di riflessione su ciò che è stata la soluzione finale attraverso due autorevoli voci del mondo accademico: gli storici Massimo Longo Adorno e Antonio Baglio. Per dissertare sullo sterminio e le sue implicazioni storiche, socio-politiche, psicologiche, umane, non basterebbe ovviamente la pagina di un blog. Vorremmo solo ricordare che la Storia si nutre purtroppo anche di “ricorsi” e la sottovalutazione di un pericolo è sempre l’anticamera della sua manifestazione.
Luciano Armeli Iapichino
Un sopravvissuto di Aushwitz:
alla banchina della stazione “erano tutti medici”.
La nascita del sistema concentrazionario nazista. Finalità e metodologie.
La salita al potere di Adolf Hitler, il 30 gennaio 1933, impose da subito la creazione di un sistema poliziesco di repressione che mettesse l’opposizione politica in condizioni di non nuocere.
La Creazione a Dachau nel 1933 del primo campo di concentramento sul suolo tedesco, riservato esclusivamente ai detenuti politici e gestito inizialmente dalle SA, fu il primo passo in quella direzione.
A Partire dal 1934 la gestione dei campi passò alla competenza delle SS che ne determinarono la gestione seguendo le direttive contenute nel manuale di direzione del campo di Dachau, redatto dal primo comandante del lager, Theodor Eicke. In esso alla violenza brutale e priva di coordinamento tipica delle S.A veniva sostituita una violenza rigida, programmata prima di tutto sul profilo psicologico, mirante alla sottomissione fisica del prigioniero attraverso la sua distruzione spirituale.
La distruzione fisica dei detenuti nei lager sorti in Germania e in Austria tra il 1934 e il 1939 non era tuttavia l’obiettivo principale del regime nazista a differenza dei campi di sterminio.
Tra il 1940 e il 1943 le SS istituirono 6 campi nella Polonia occupata dalle truppe tedesche.
Auschwitz, Treblinka, Majdaneck, Chelmno, Sobibor, Belzec erano a tutti gli effetti vernichtungslager (campi di sterminio).
In essi furono deportati da tutta Europa esclusivamente ebrei e zingari; il loro scopo ultimo consisteva nell’ eliminazione fisica degli internati mediante camera a gas in osservanze alle direttive sulla soluzione finale della questione ebraica redatte dai vertici delle SS (Heydrich e Himmler) su istruzione precisa di Hitler.
Il personale direttivo dei campi era costituito da tedeschi provenienti prevalentemente dai ranghi della terza divisione SSTotenkopf (testa di morto) e avevano avuto precedenti esperienze nei lager per detenuti politici in Germania tra il 1934 e il 1940, come nel caso del primo e ultimo comandante di Auschwitz, Rudolf Hoss. Il personale secondario di guardia era invece costituito prevalentemente da baltici (lettoni in primis) e da ucraini. Era rigorosamente vietata qualsiasi forma di contatto interpersonale tra chi dirigeva i campi e chi ne era detenuto. Ad Auschwitz, tuttavia, per le dimensioni particolarmente vaste dell’impianto non furono rari episodi di solidarietà tra vittime e personale del lager, anche se risultarono totalmente ininfluenti nell’arrestare la macchina di sterminio.
Le camere a gas di Auschwitz entrarono in azione per la prima volta nell’autunno del 1941 e cessarono di funzionare nel Dicembre del 1944. In mezzo ci sta la distruzione fisica e spirituale dell’Ebraismo Europeo.
Massimo Longo Adorno
(Ricercatore di Storia contemporanea Università di Kiel, Germania)
L’infanzia negata. La Shoah dei bambini.
Sollecitato ad offrire, da storico, un contributo in occasione della Giornata della Memoria, magari ritagliandomi un aspetto sin qui poco dibattuto e/o trascurato nel dibattito pubblico, confesso di aver esitato parecchio prima di effettuare la scelta definitiva. La mia attenzione si è appuntata inizialmente sulla vicenda di rom e sinti, vittime delle persecuzioni nazifasciste e rinchiusi nei lager insieme ad ebrei, omossessuali, oppositori politici e disabili. Si stima che furono 500.000 mila a perdere la vita nel cosiddetto “Porrajmos”, come vengono definiti nella loro lingua la persecuzione e lo sterminio degli “zingari” da parte della Germania nazista e dei paesi dell’Asse (rimando, tra gli altri, alla lettura del volume di Luca Bravi e Matteo Bassoli, Il Porrajmos in Italia. La persecuzione di rom e sinti durante il fascismo, Emil di Odoya, Bologna 2013).
Un’altra tematica che ha attirato nell’ultimo periodo il mio interesse è la questione spinosa – sulla quale si è soffermato di recente anche Simon Levis Sullam nel suo libro I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei 1943-45, edito da Feltrinelli (2015) – della partecipazione attiva dei repubblichini di Salò alle operazioni di rastrellamento degli ebrei, tradotti dapprima nelle carceri locali per essere trasferiti nei campi di transito – come quello di Fossoli (Carpi) – con destinazione finale Auschwitz.
Ho tuttavia deciso di focalizzare il mio intervento sulla questione dei bambini coinvolti nella Shoah, per tutte le implicazioni di carattere etico, di partecipazione emotiva – accanto all’interesse propriamente storiografico – che la vicenda trascina con sé. A indirizzarmi su questa tematica sono state le suggestioni derivanti dalle letture di alcuni apprezzabili volumi, frutto di lunghe ed accurate ricerche: dal testo di Bruno Maida, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938-1945, edito da Einaudi nel 2013, a quello altrettanto valido, uscito l’anno dopo per le edizioni Giuntina, di Sara Valentina Di Palma, Se questo è un bambino. Infanzia e Shoah, per venire al più recente libro di Sergio Luzzatto su I bambini di Moshe. Gli orfani della Shoah e la nascita di Israele, pubblicato da Einaudi nel 2018.
Si tratta di importanti studi destinati a colmare, in gran parte, le lacune in un campo d’indagine che solamente negli ultimi anni ha visto crescere a livello internazionale l’interesse verso la storia dell’infanzia nel Novecento. E proprio lo sterminio dei bambini si è configurato come l’aspetto più radicale della Shoah, con la sua volontà di spezzare il futuro, di renderlo impossibile. Perché l’uccisione dei piccoli? “Voi siete ebrei, voi bambini ebrei crescete, vi sposate e fate altri ebrei” fu la risposta sconcertante data da un ufficiale tedesco alla figlia quattordicenne del titolare dell’hotel Meina, nell’omonima località nel Lago Maggiore, durante una retata antiebraica nell’autunno del 1943. A conclusione della guerra, si sarebbero contati un milione e mezzo di bambini uccisi, di cui il 90% ebrei.
Se ci limitiamo al solo caso italiano, a fronte dei 7-8.000 bambini su 47.000 ebrei segnalati nel censimento del 1938, furono 900 a finire nei campi di concentramento: 776 ad Auschwitz, il resto a Bergen Belsen, Ravensbruck ecc. Avrebbero fatto ritorno in pochi. In particolare, solo 25 di essi sarebbero sopravvissuti ad Auschwitz: oltre a Liliana Segre, oggi senatrice a vita, figuravano le sorelle Andra e Tatiana Bucci, Luigi Ferri, Arianna Szoreny, Loredana Tisminiezky, Giacomo Iacoboni, le sorelle Ida e Stellina Marcheria, Graziella Coen, Fatina Sed, Milena Zarfati e Sol Cittone; provenivano da Rodi Samuele Modiano, Ascer Hanan, Ascer Varon, Alice Tarica, Elsa Hasson, Vittorio Hasson, Stella Hugnu, Mosè Coen, Sara Hanan, Eliezer Surnami, Giannetta Galante e Stella Varon.
Ripercorrendo per sommi capi le tappe dell’orrore, è necessario risalire a quella prima ferita inferta dalle leggi razziali e dall’esclusione dalla scuola, che in Italia si collocarono nel 1938. Pensate a quanto incomprensibile e intollerabile dovesse apparire ai bambini ebrei dell’epoca l’espulsione improvvisa dalle scuole, l’isolamento e la dolorosa segregazione imposta da divieti che ne impedivano ogni normale attività quotidiana. Una vita da quel momento in poi segnata dall’abbandono: dapprima della scuola, delle amicizie di sempre, delle abitudini quotidiane; poi dei giochi, degli oggetti, della casa, spesso dei genitori e persino del loro stesso nome, costretti a mutarlo per sperare di salvarsi.
Al di là del peso della guerra, la situazione era destinata ad aggravarsi dopo l’8 settembre 1943, quando si intensificarono le razzie dei tedeschi contro ebrei ed antifascisti, che vedevano coinvolte accanto alle SS di Dannecker anche forze dell’ordine e bande private fasciste (Kock, Carità ecc.) Per sottrarsi alle persecuzioni, i più fortunati tra i bambini ebrei si adattarono a vivere in luoghi di fortuna, nascosti in appartamenti e in baite di montagna abbandonate o magari in conventi, ospiti di persone sconosciute o di vicini, costretti a modificare nome e identità e talvolta a convertirsi. Gli altri finivano deportati nei campi di concentramento, seguendo il triste destino degli adulti. Emblematico, e purtroppo tutt’altro che isolato, è rimasto il caso della razzia del ghetto di Roma, avvenuta il 16 ottobre 1943 ad opera delle SS, quando 1023 ebrei vennero deportati ad Auschwitz. Ne tornarono soltanto diciassette, mentre nessuno dei 276 bambini sarebbe sopravvissuto.
E veniamo alla parte più tragica, la vita nei campi di concentramento e l’annientamento fisico, in quella sorta di regno degli inferi e della morte. Non mi soffermerò sulle descrizioni e immagini apocalittiche, che abbiamo negli anni imparato a conoscere dalle riprese filmate e dalle testimonianze dei sopravvissuti, spesso trasposte in proiezioni e documentari. Certo, vi era una qualche sostanziale differenza di vita tra i vari campi: ad Auschwitz si moriva da subito e solo quelli più grandi e dalla struttura fisica più forte venivano utilizzati come forza lavoro per poi finire nelle camere a gas, senza dimenticare le atrocità cui furono sottoposti molti di essi, soprattutto gemelli, a seguito degli “esperimenti” del famigerato medico della morte, Joseph Mengele; a Ravensbruck, almeno nella fase iniziale, c’era la speranza di sopravvivere e così a Bergen Belsen esistevano, almeno formalmente, dei luoghi per la ginnastica e i giochi dei più piccoli. Ma la sorte dei bambini che finirono in questo “girone infernale” ed ebbero la ventura di venirne fuori fu segnata per sempre, alle prese con ferite materiali e psicologiche difficili da risanare, costretti a fare i conti con il senso di colpa per essere sopravvissuti e la rimozione di un passato così traumatico.
Ad ogni modo, la conclusione della guerra recava pure con sé la fine dell’esclusione, della separazione forzata e la possibilità per molti di ricomporre un quadro familiare, di riappropriarsi di affetti e spazi conosciuti. Si assistette pure a un’aspra contesa tra famiglie, stati e associazioni ebraiche per dare una famiglia ai tanti orfani ebrei. Non mancò in molti di essi una straordinaria forza di reazione, capace di tradursi in passione per lo studio, la ricerca e l’attivismo in ogni campo, compresa la politica. La vita continuava, a dispetto delle persecuzioni subite e dell’orrore vissuto: molti si sposarono e misero al mondo figli, che si fecero carico del sostegno emotivo e morale nei confronti di genitori così provati e della commemorazione della Shoah.
Antonio Baglio
(Università degli studi di Messina)
(Galleria fotografica a cura di A. Baglio)