La chiave per evitare la chetoacidosi, la più grave e temibile complicanza del diabete di tipo 1, a volte addirittura fatale, è la diagnosi precoce. A dimostrare l’importanza di individuare i bimbi a rischio prima della comparsa dei sintomi, in occasione della Giornata Mondiale del Diabete, sono gli esperti della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), che hanno messo a confronto l’incidenza della chetoacidosi nella popolazione pediatrica, con e senza screening, sulla base dei risultati di due studi pubblicati su Diabetologia.
I risultati mostrano una percentuale molto più bassa di conseguenze negative nei bambini sottoposti a test, confermando la straordinaria ed essenziale importanza della legge 130/2023, approvata poco più di un anno fa, che ha istituito in Italia uno screening pediatrico per il diabete di tipo 1. Scoprire per tempo la malattia permette anche di intervenire con nuove terapie come Teplizumab, il primo farmaco capace di ritardare la comparsa dei sintomi del diabete di tipo 1. Approvato negli Stati Uniti dalla FDA, nel novembre 2022, il trattamento con Teplizumab è ora disponibile in Italia per uso compassionevole a partire dai bambini di età pari o superiore a 8 anni con diabete di tipo 1.
Diabete di tipo 1: screening bimbi riduce del 94% il rischio di gravi complicanze. Cherubini, presidente SIEDP “Grazie a test su scala nazionale, saranno evitabili in oltre 450 bambini ogni anno”.
Disponibile per la prima volta in Italia Teplizumab per uso compassionevole: primo farmaco in grado di ritardare i sintomi della malattia
La diagnosi precoce del diabete di tipo 1 riduce del 94% il rischio di gravi complicanze e, grazie allo screening, è prevedibile che ogni anno oltre 450 bambini eviteranno la chetoacidosi, la più pericolosa conseguenza, a volte fatale, della malattia. A dare la buona notizia, in occasione della Giornata Mondiale del Diabete, sono gli esperti della Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica (SIEDP), che hanno messo a confronto i risultati ottenuti da due studi pubblicati sulla rivista Diabetologia, condotti sulla popolazione pediatrica, con e senza screening del diabete. Il primo studio, guidato da Valentino Cherubini, presidente SIEDP, referente per il Ministero della Salute e per l’Istituto Superiore di Sanità per lo screening pediatrico del diabete di tipo 1, ha valutato la frequenza di chetoacidosi nei bambini in cui la malattia viene scoperta alla comparsa della complicanza. Il secondo, condotto da ricercatori tedeschi nell’ambito del progetto Fr1da per la diagnosi precoce, ha analizzato, invece, la frequenza di chetoacidosi in bambini sottoposti a screening.
In tutto il mondo sono 8,4 milioni le persone con diabete di tipo 1, con mezzo milione di nuovi casi diagnosticati in età infantile. Uno scenario allarmante che riguarda anche l’Italia, dove si stima che siano presenti oltre 20mila bambini con diabete di tipo 1, con una prevalenza di chetoacidosi tra le più alte.
“Questa grave complicanza si sviluppa quando l’organismo non riesce a produrre abbastanza insulina e inizia a scomporre i grassi per alimentare i processi metabolici, con un accumulo di acidi nel sangue, chiamati appunto chetoni, provocando, nei bambini colpiti, alterazioni neurologiche che, nelle forme più gravi, possono arrivare a metterne in pericolo la vita – spiega Cherubini, tra i maggiori esperti al mondo, da sempre in prima linea per promuovere la diagnosi precoce e la prevenzione della chetoacidosi -. Dallo studio che abbiamo condotto su 59mila bambini in 13 Paesi su 3 continenti, tra il 2006 e il 2016, è emerso che, in Italia, dove la scoperta della malattia avviene spesso con la comparsa dei sintomi, la frequenza di chetoacidosi arriva al 41,2% nei bimbi più piccoli, con un secondo picco intorno ai 10-12 anni – riporta –. Confrontando i nostri risultati con quelli ottenuti dal progetto tedesco di screening Fr1da, nei bimbi risultati positivi al test, è emersa un’incidenza molto più bassa di chetoacidosi, pari al 2,5%, con una riduzione del 94% del rischio rispetto al nostro studio. Dati che confermano – sottolinea l’esperto -, l’essenziale e straordinaria importanza della legge 130/2023, approvata poco più di un anno fa, che ha istituito in Italia – primo Paese al mondo – un programma nazionale di screening pediatrico, proprio con l’obiettivo principale di prevenire la chetoacidosi”.
Dall’approvazione della legge, un progetto pilota in 4 regioni, ne ha confermato la fattibilità ed entro il prossimo anno sarà possibile estenderlo su scala nazionale. “Il progetto, partito a marzo 2024, ha finora coinvolto 3600 bimbi e quelli risultati positivi, sulla base dei dati più aggiornati, sono stati lo 0,23%.Considerato che lo screening sarà effettuato in bimbi tra i 2 e i 3 anni e ripetuto tra i 5 e i 7 anni di età, se tutti effettueranno i test, si prevede che 1113 bimbi saranno positivi a due o più anticorpi, con rischio certo di sviluppare la malattia. E grazie alla riduzione al 2,5% della comparsa di chetoacidosi, resa possibile con l’introduzione dei test pediatrici in tutto il Paese, oltre 450 bimbi ogni anno potranno evitare la terribile complicanza”, spiega Cherubini.
PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA DISPONIBILE TEPLIZUMAB PER USO COMPASSIONEVOLE
Teplizumab, approvato negli Stati Uniti dalla FDA nel novembre 2022, primo farmaco al mondo capace di ritardare l’esordio clinico del diabete di tipo 1, è ora disponibile in Italia per uso compassionevole a partire dai bimbi di età pari o superiore a 8 anni con diabete di tipo 1 di stadio 2, positivi a due o più autoanticorpi caratteristici della malattia e con condizione di disglicemia. L’utilizzo per uso compassionevole sarà consentito anche nei centri di diabetologia pediatrica che ne faranno richiesta.
“Si tratta di un anticorpo monoclonale che si somministra per via endovenosa e che permette di ritardare l’insorgenza del diabete di tipo 1 in chi manifesta i primi segni di questa patologia consentendo ai pazienti di vivere mesi o anni senza il peso della malattia – spiega il presidente SIEDP–. Il farmaco prevede la somministrazione una volta al giorno per due settimane ed è capace di rallentare la progressione della malattia legandosi a specifiche cellule del sistema immunitario che, normalmente, agiscono nella difesa dell’organismo contro molti patogeni, ma che nelle persone con diabete di tipo 1 sono tra le responsabili della risposta autoimmune errata che contraddistingue la patologia – prosegue -. Come emerso da uno studio su 76 pazienti con diabete di tipo 1 in stadio preclinico, dopo circa 51 mesi dalla somministrazione del farmaco, il 45% dei 44 pazienti che hanno ricevuto l’anticorpo monoclonale è stato diagnosticato con diabete di tipo 1, rispetto al 72% dei 32 pazienti che hanno ricevuto un placebo, con un ritardo significativo nell’esordio della malattia”, conclude Cherubini.