di ANDREA FILLORAMO
1 luglio 1988 – 1 luglio 2021: sono passati 33 anni dalla morte di Mons. Francesco Fasola, arcivescovo e archimandrita di Messina, grande figura di pastore, che ha lasciato un solco profondo nell’animo di quanti l’hanno conosciuto e da lui si sono sentiti amati.
Sì, perché proprio questo era il segreto dell’arcivescovo, “convinto” dello spirito e dei valori cristiani del Concilio Vaticano Secondo, al quale ha attivamente partecipato: operare sempre, in ogni momento e in ogni occasione per rendere consapevoli gli altri di essere amati, cioè accettati per quello che sono, per le scelte fatte da rispettare anche quando non si condividono.
E questa – diciamolo pure – è sicuramente una virtù molto rara in chi, nel mondo clericale, è stato educato ad un dogmatismo radicale, che spesso non lascia scampo a chi la pensa diversamente ed è impensabile nei molti fondamentalisti cattolici che tutt’oggi fanno del conflitto stesso uno strumento per salvaguardare, almeno a parole, la fede.
Era inapplicabile allora, inoltre, a quella leadership curiale, che Fasola ha cercato di controllare, senza riuscire, per la quale valeva il principio del “divide ed impera”.
L’arcivescovo, anticipando di molti anni Papa Francesco e seguendo le orme e il disegno di Papa Giovanni XXIII era, infatti, fortemente convinto che il rispetto per gli altri, le loro idee, il loro stile di vita, non devono diventare quasi un paradosso e che la considerazione degli altri inizia sempre mostrandosi disponibili nelle situazioni più semplici della vita, dove, come in ogni caso, non devono esistere “muri che separano” ma si costruiscono “ponti” che uniscono”.
Sono sempre stato grato a lui per l’affetto paterno dimostratomi durante tutte le mie vicende personali, ne ho ascoltato i consigli; ne ho ricevuto le confidenze per un decennio, da quando, cioè, a partire dal 1977, si è ritirato il quel sito meraviglioso che è il Sacro Monte di Varallo, occupando la camera che fu di S. Carlo Borromeo che lì si fermò vari giorni, preparandosi alla morte avvenuta poco dopo a Milano.
Il Sacro Monte non è molto lontano da casa mia, e lì spesso l’arcivescovo mi chiedeva di andarlo a trovare ed io, ad ogni squillo di telefono, al quale seguiva il suo solito: “sono Padre Francesco”, lo raggiungevo con la mia autovettura, spesso accompagnato da mia moglie e dai miei figli allora bambini.
Durante i nostri incontri in cui manifestava e trasmetteva sempre la sua intensa “spiritualità”, non nascondeva mai la nostalgia per la Sicilia, dove per un ventennio aveva esercitato il ministero episcopale.
Da piemontese anche se, quindi, apparentemente duro e arcigno, l’arcivescovo rimaneva ancorato sempre a ricordi così vivi al punto da dimostrare di essere innamorato dell’isola e dei suoi abitanti.
Egli parlava, infatti, della realtà vissuta in Sicilia con gli occhi di chi non ne percepiva il mutare del tempo.
Fasola riversava il suo affetto sui luoghi che descriveva perfettamente, sui volti, alcuni a me abbastanza noti, sulle situazioni non sempre facili da lui vissute, che io conoscevo e delle quali osservava la massima discrezione.
Il popolo siciliano, del resto con il quale Fasola si immedesimava sentendosi quasi siciliano, la conosce bene, questa sensazione, ma altrettanto fortemente conosce il sentimento che segue alla sua privazione, all’attimo in cui questa viene strappata e calpestata, o si deve necessariamente abbandonare, resa irriconoscibile dal passare dei giorni, dei mesi, degli anni. Pirandello aveva particolarmente a cuore questo tema, tant’è che gli dedicò una delle sue prime commedie del 1910 quando a vedere la luce del palcoscenico era, infatti, “Lumie di Sicilia”, un atto unico che si proponeva di trasporre in una novella dal medesimo titolo.
Torno all’inizio del mese di luglio del 1988, quando nella Cattedrale di Messina dove l’arcivescovo ha voluto essere seppellito, si sono celebrati i suoi funerali.
Ero allora ospite in un hotel della città, perché impegnato in Commissione di esami di maturità in un Liceo classico, quando nell’hall di quell’albergo, accompagnato da don Giuseppe Malgioglio, che fu segretario particolare dell’arcivescovo, un gruppo ben nutrito di gente, che poi ho saputo che proveniva da Novara del Piemonte, città d’origine di Fasola, chiedeva ospitalità.
Don Malgioglio appena mi vide mi disse con grande commozione: “Sono contento di averti visto. Voglio dirti che una delle persone che prima di morire l’arcivescovo ha menzionato sei proprio tu”.
Questo fatto ancora dopo tanti anni mi commuove.
Attendo, adesso, con ansia che si abbrevino i tempi in cui, Mons. Francesco Fasola, di cui da tempo ha avuto inizio il processo di canonizzazione, al quale ho partecipato come testimone, salga agli onori degli altari.