di Roberto Malini
I dipinti di Charlotte ci indicano quanto sia importante recuperare le vicende e le opere superstiti all’orrore dell’Olocausto, per consegnare alle nuove generazioni quello che rimane dell’eredità di migliaia di artisti assassinati nei campi di morte o sopravvissuti allo sterminio…
10 ottobre: un’altra data atroce, nel calendario della Shoah. Un calendario che è appeso alle pareti della casa di noi tutti, quella “civiltà” di cui parliamo, ma che non riusciamo mai a costruire in modo compiuto, senza escludere nessuno. Da parte mia, cerco con impegno ed energia di evitare che gli artisti ebrei, rom, omosessuali, testimoni di Geova, stranieri e dissidenti colpiti dall’orrore dell’Olocausto siano dimenticati. Così mi pongo sulle tracce delle loro storie e delle loro opere sopravvissute ai roghi accesi dai seguaci di Hitler e Mussolini: uno schizzo, un’incisione, un disegno, un dipinto sfuggito ai distruttori. Una ricerca difficile, perché l’arte della Shoah è arte che non si trova appesa a chiodi delle case o dei musei, ma è quasi sempre cenere dispersa o lavoro dimenticato, sepolto sotto macerie, divorato da gore d’acqua e muffe. Una parte del mio lavoro di salvataggio – un’opera in cui mi hanno aiutato amici della Memoria come Dario Picciau, Rami Lavitzky, Carol Morganti, Francesco Lotoro – si trova presso il Museo Nazionale della Shoah di Roma, in attesa di essere catalogata in modo scientifico, esposta al pubblico, valorizzata nei programmi scolastici, come mi promise il governo italiano all’atto della donazione, come voleva fortemente Leone Paserman, primo direttore del Museo, ma come non è ancora avvenuto. Un’altra parte, di uguale importanza per la storia dell’Arte e i programmi di educazione alla Shoah, è conservata presso la Cittadella della Musica Concentrazionaria di Barletta, nel prezioso “Thesaurum Memoriae”, che presto diventerà una realtà di Memoria e studio, di respiro internazionale. Tornando al 10 ottobre 1943, lo rammentiamo con dolore e sdegno, quel giorno privo di luce e calore, in cui fu uccisa dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau l’artista ebrea tedesca Charlotte Salomon. Era nata a Berlino il 16 aprile 1917. Giovane di straordinario talento e vivida creatività, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti della sua città, ma le venne impedito di completare gli studi a causa delle leggi razziali. Nel 1936 il padre, Albert, fu internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Charlotte si trasferì presso i nonni a Villefranche-sur-Mer, in Francia. Nel 1940 la nonna si suicidò, poco prima che lei e il nonno fossero deportati nel campo di Gurs. Un internamento breve a causa delle pessime condizioni di salute dell’anziano. A Nizza, durante il suo ultimo periodo di libertà, l’artista realizzò 769 dipinti: una serie dal titolo ”Vita? O teatro?” in cui Charlotte rappresentò, come in una sceneggiatura teatrale, le tappe della sua esistenza e della persecuzione subita dal suo popolo. Nel mese di settembre del 1943 l’artista si era sposata con il rifugiato tedesco Alexander Nagler. In quell’anno fatale, temendo che le sue opere fossero distrutte dai nazisti, le affidò a un amico. Arrestata insieme al marito, la Solomon morì in una delle camere a gas di Auschwitz-Birkenau a soli 26 anni. Oggi i suoi lavori sono conservati presso lo Joods Historisch Museum di Amsterdam (un museo che si interessò anche alla collezione “Artisti dell’Olocausto” da me raccolta e donata allo Stato italiano). I dipinti di Charlotte Salomon sono realizzati a guazzo, essenziali, di pregiatissima composizione, preziosi per la qualità artistica e il valore testimoniale.