di ANDREA FILLORAMO
La “Commemorazione di tutti i fedeli defunti”, comunemente detta “ Giorno dei Morti”, è una ricorrenza della Chiesa Cattolica, che si celebra il 2 novembre di ogni anno, il giorno successivo alla Solennità di tutti i Santi. Essa è un’antica usanza che risale alla prassi monastica del IX secolo. A fissare la data contribuì l’abate benedettino Odilone nel 998, il quale fece suonare le “campane a morto” dopo i vespri del primo novembre. L’eco arrivò nei monasteri legati a Cluny, distribuiti in Europa, favorendo la sua diffusione.
Da osservare che, all’inizio e per secoli, la commemorazione dei fedeli defunti, come ogni altro atto funebre, era segnato da passaggi festosi e ludici, di convivio, di canto, di esibizione poetica e di momenti di piacere con i quali si cercava, attraverso la sdrammatizzazione della morte, di connettere il mondo dei trapassati con quello dei viventi. In tal senso si può leggere la tradizione italiana che faceva credere ai bambini, che, durante la notte tra l’1 e il 2 novembre, i defunti facessero visita ai parenti che per tal motivo occorreva lasciare in cucina dei dolci per loro. E di dolci tradizionali legati alla festa dei morti, in tutte le regioni, se ne contavano se ne contano ancora molti
Un rito particolare del Giorno dei Morti era quello che, fino agli anni 50/60 del secolo scorso, avveniva in Sicilia e in qualche altra Regione, dove si faceva credere ai bambini che i parenti defunti, venendo di notte, nascondessero in vari posti della casa dei doni, precedentemente occultati dai genitori nei luoghi più insospettabili. La mattina del due novembre, pertanto, i bambini balzavano fuori dal letto per partecipare a questa “caccia al tesoro”, frugavano in ogni angolo della casa, finché sul punto di abbandonare la ricerca infruttuosa, veniva fuori la sorpresa. Trovavano, quindi, in posti reconditi impensabili, la frutta secca, le “ossa dei morti”, la frutta martorana, gli “nzuddi”, i biscotti croccanti alle mandorle, i pupi di zucchero che evocavano gli avi della famiglia ed altro.
Nel Giorno dei Morti era ed è costume, infine, far visita ai cimiteri, che aveva nel passato e continua ad avere ancora un significato psicologico e sociale di grande importanza. I cimiteri, infatti, sono luoghi fisicamente ben definiti, con connotazioni sociali molto chiare e condivise, permettono di rimanere in contatto coi defunti e ricordarli avendo allo stesso tempo il sostegno degli altri. È questo sicuramente un impegno concreto nel dare una sorta di ordine al proprio dolore, incanalandolo in modo che sia meno soverchiante e ciò avviene: nel sostare in preghiera davanti alla tomba, cambiare l’acqua, pulire il marmo, sostituire o mettere sulla tomba dei fiori freschi.
Tutti questi sono atti costruiscono intorno ad una tomba, anzi in un cimitero, un’umanità densa, una comunità che sceglie di tenere in connessione la trama dei ricordi e, da questa prospettiva e con questo peso specifico, esprime la sua affettività plurima e complessa.
I fiori che si mettono sulle tombe oltretutto– lo sappiamo – sono un modo tangibile per mostrare amore e rispetto, e lasciarli su una tomba che viene ad essere ripulita, è come inviare un omaggio a una persona cara con cui non ci si può incontrare.
Recarsi al cimitero in quel giorno ha, quindi, un significato psico-sociale ben preciso. Come in altri rituali socialmente codificati, andare al cimitero nel Giorno dei Morti, può contribuire a ridurre l’angoscia della perdita degli affetti. Compiere quel gesto che tutti compiono e che hanno compiuto da secoli, fa sentire meno soli, nella consapevolezza che altri hanno affrontato e affrontano lo stesso dolore, che è un’esperienza fondamentale dell’esistenza di ogni individuo.
Tutto ciò, però, non fa dimenticare che la morte sia la fonte degli eterni inquietanti interrogativi sulla vita, sul destino individuale e collettivo, su ciò che ci attende dopo la fine dell’esistenza.
L’afferma lo stesso Papa Francesco quando dice: “Non si deve negare il diritto al pianto. La morte è un’esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza eccezione alcuna. Fa parte della vita; eppure, quando tocca gli affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Quanta gente, io capisco, si arrabbia con Dio, bestemmia, ‘perché mi hai tolto il figlio, la figlia, ma Dio non c’è, non esiste, perché ha fatto questo’, quante volte abbiamo sentito questo. Questa rabbia è un po’ quello che viene dal cuore del dolore grande, la perdita di un figlio, di una figlia, di un papà, di una mamma è un grande dolore, questo accade continuamente nelle famiglie”, esseri umani. Il Signore ci liberi dall’abituarci a questo”.
Concludendo: Per richiesta fattami via e-mail da S.G. un mio amico, colpito recentemente dalla morte del figlio, in segno anche della mia viva partecipazione al suo dolore, non posso non ripubblicare e riportare in allegato alcuni miei versi, già pubblicati in ImgPress e rintracciabili nell’archivio del Foglio Elettronico, il cui titolo è: Nel Giorno dei Morti, che il mio amico non è riuscito a rintracciare.
La morte di un figlio è una delle prove più dure, se non la più dura, che si può affrontare nella vita.
Nessuno si aspetta di sopravvivere ai propri figli e si sente in colpa e in una ricorrente sensazione di scollegamento dal proprio corpo o dai propri processi mentali, come se si stesse osservando la propria vita dall’esterno e/o dalla sensazione di essere dissociato dall’ambiente circostante. Improvvisamente ci si sente vecchi.
Con tali versi, che non hanno alcuna mania letteraria, né tanto meno vogliono essere, ripubblicandoli, un reiterato miserevole atto esibizionistico della mia sofferenza, ho soltanto catturato le mie sensazioni, ho diluito il mio dolore: e ho cercato di trasmettere una parola di speranza che si poggia sulla fede agli altri e cosi continuo a fare, avvicinandoci alla Commemorazione di tutti i fedeli defunti dell’anno in corso 2022.
Rimanga, però, per tutti fermo e convincente quanto Papa Bergoglio dice quando afferma: “I nostri cari non sono scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono nelle mani buone e forti di Dio. L’amore è più forte della morte. Per questo la strada è far crescere l’amore, renderlo più solido e l’amore ci custodirà fino al giorno in cui ogni lacrima sarà asciugata, quando non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno”.
NEL GIORNO DEI MORTI
In questo triste giorno dei defunti
conto i miei anni, sono proprio tanti!
sono foglie cadute giù dal ramo
ove non giunge il sole e non c’è luce.
Drizzo l’orecchio attento al gufo nero
che bubola là appeso alla grondaia,
annuncia che verrà presto la notte,
la buia notte che paura arreca.
Sospeso tra i due tempi del destino,
fra il giorno e notte il gufo mi rammenta
che il futuro per me non è sicuro
incerto è l’oggi e incerto è anche il domani.
Scruto invano le stelle e il firmamento,
cancello il calendario degli impegni,
lascio le attese come s’abbandona
la donna se si scopre che non ti ama,
come si getta un farmaco da banco
quando il dolore più non ti tormenta.
Sfugge il passato, tacciano i ricordi
vuota è la mente e spenta è la ragione.
Rimuovo incerto tutti quei pensieri
che diventano vani a chi dispera.
Non nutro desideri di denaro
basta quel tanto quanto ne possiedo.
Se mi guardo allo specchio riconosco
quel che è fugace e quel ch’è eterno e dura:
nel viso si dipinge della vita
il suo scorrere incerto e il finito.
Scorgo del volto solchi assai profondi
distratte smorfie e borse sotto gli occhi
Vedo le spalle divenute curve
il passo non più rapido ma lento.
Osservo che la sorte mi accomuna
a chi è triste, pensieroso, assorto,
irato, fosco, a volte smemorato
cupo, silenzioso e annoiato.
Un morbo che io temo e fa paura,
che cancella tutt’intero il tuo passato
dal quale prego Iddio che mi preservi,
è il maledetto Alzheimer che non perdona.
Mi sovviene ad un tratto all’improvviso
Il ricordo del caro mio figliolo
reciso dalla falce maledetta
come un bel fiore nell’età più bella.
Tanto è il dolore che mi fredda il cuore,
lo rende come il marmo o pietra dura
come un tronco caduto nel sentiero
abbattuto dal vento e da bufera.
Stanotte l’ho sognato in paradiso,
correva con lo skate a lui donato
nel giorno tre del mese di novembre
era il giorno del suo compleanno.
Volteggiava nell’aria molto tersa
qual nuvola portata su dal vento
si librava al di sopra d’ ogni cosa
volteggiando nel cielo all’infinito.
In alto poi attento s’innalzava
qual piuma ch’è riposta sulla mano
che fugge al primo soffio del respiro
mentre tu lentamente la rinchiudi.
Andava al trono riservato a Dio
che l’investiva con una forte luce
che vince il buio che nel mondo regna
passandomi d’accanto sorrideva.
Somigliava a un piccolo lattante
che sta tranquillo al seno della mamma:
era più bello di quand’era in vita.
I suoi occhi sembravano dipinti.
Erano fonti in cui si specchia il cielo
un cielo terso come all’orizzonte
quando si piega al mare che l’accoglie
generoso fra le onde e fra gli scogli.
S’avvicinò a me; lo guardai stupido,
m’abbracciò con lo sguardo e poi mi disse
come diceva sempre da bambino:
“vieni con me, papà…stammi vicino”.