Prima di continuare il tema del Concilio è d’obbligo fare qualche commento in merito alla “bomba” della rinuncia di Papa Benedetto XVI al suo ministero petrino. Non bisogna fare del catastrofismo, non credo alle varie congetture che in questi giorni circolano sui mass media, il Papa ha detto che non è più in grado di portare avanti bene il suo ministero, del resto l’”uomo” Ratzinger è in Vaticano che amministra e governa dal lontano 1982, quando è stato nominato prefetto della Sacra Congregazione della Dottrina della Fede da Giovanni Paolo II. Sono 30 anni di combattimenti e di lotta per il bene della Barca di Pietro, quindi mi sembra quasi normale che le sue forze fisiche e morali vengano meno. Sicuramente è un gesto di umiltà in un mondo dove ci si sbrana per un centimetro di potere, vedi i nostri politici. Una richiesta mi sento di fare al Papa, almeno che non ci abbandoni con la sua scrittura: con i suoi “capolavori”. Mentre a noi il compito di riscoprire, in questo Anno della Fede, che è la vera eredità di Benedetto XVI, le ragioni per credere. Continuiamo la lettura e lo studio del Concilio proprio secondo come ci aveva indicato proprio Benedetto XVI in quel celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 e soprattutto dopo la lezione del Papa ai tanti sacerdoti in aula “Paolo VI” di questa mattina. Ricordo che sto utilizzando l’ottimo testo di Giovanni Cavalcoli, “Progresso nella Continuità”, edito da Fede & Cultura. Il Concilio Ecumenico Vaticano II va collegato con tutta la Tradizione della Chiesa e che i suoi insegnamenti costituiscono un progresso nella conoscenza di questa Tradizione. Riassumendo: “Progresso nella continuità” o “Esegesi della riforma”. Va chiarito però in che cosa consiste il vero progresso, il Concilio “propone un progresso che non ha niente a che vedere con la falsa concezione del progresso propria del modernismo”.
Tra le novità del Concilio c’è l’introduzione nella Chiesa di un profondo rinnovamento pastorale, cioè di un nuovo modo di annunciare e diffondere il Vangelo nel mondo d’oggi. Cavalcoli sottolinea i mutamenti a livello pastorale, che rompono con il passato , “A nessuno è sfuggita la novità dell’impostazione pastorale del Vaticano II, tanto che alcuni studiosi, esagerando, hanno parlato addirittura di ‘rivoluzione’ o di ‘sovversione’, paragonando la storia del concilio alla Rivoluzione Francese”. Qui si è potuto notare come i due fronti contrapposti hanno visto il mutamento: da un lato quelli che si attaccano alla Tradizione, vedendo un nuovo criptomodernismo, dall’altro quelli che sono influenzati dalla concezione modernista del Progresso, vedono soltanto nel Concilio una rottura con il passato ed ora nel 1962, finalmente è arrivata la vera luce del Vangelo. Occorre con forza chiarire che “l’azione pastorale nella sua essenza fondamentale, non cambia lungo i secoli”, scrive Cavalcoli.
Già nel famoso discorso d’apertura del Vaticano II del beato Giovanni XXIII, “ha promosso un rinnovamento dell’azione pastorale ed evangelizzatrice della Chiesa improntata a due principi fondamentali: primo la comunicazione del Vangelo agli uomini del nostro tempo con un linguaggio e modi espressivi adatti e comprensibili, mediante l’utilizzazione delle diverse culture alle quali il messaggio viene indirizzato (inculturazione). Un concetto che aveva bene espresso don Piero Cantoni nella sua relazione nell’ambito degli incontri per l’Anno della Fede, presso la “Casa Schuster” a Milano.”Secondo, una modalità pastorale ed evangelizzatrice indirizzata soprattutto alla messa in luce dei valori e delle verità che la Chiesa ha in comune col mondo moderno, facendo prevalere un atteggiamento di dialogo e di misericordia rispetto a quello della severità e della condanna”. Questi due indirizzi hanno caratterizzato tutti i documenti del concilio generando una svolta profonda nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti del mondo moderno. Certamente questo provvidenziale rinnovamento pastorale ha portato copiosi frutti in tutto il mondo, ma qualche volta può capitare qualche difetto, ed è opportuno riconoscerlo. Qui Cavalcoli si sofferma sulla opportunità che la Chiesa cercasse di rompere con quella eccessiva severità contro i suoi figli e sulla esagerata opposizione al mondo moderno, ha fatto bene a dimostrarsi più misericordiosa e più comprensiva e più aperta al dialogo, per rendere più attraente e diffondere meglio il messaggio di salvezza. In questo aspetto un ruolo fondamentale lo svolge, il pastore, l’apostolo, l’evangelizzatore, che “si fa tutto a tutti”, come dice S. Paolo, con modestia, umiltà, discrezione. Ma questo, però, non significa che il Concilio dimenticava la condanna degli errori, “né la necessità della “buona battaglia”, che ci porta ad opporci alle forze del male, e neppure scordava le esigenze dell’ascetismo e del rigore morale”. Tuttavia Cavalcoli rileva nell’impostazione pastorale del Concilio “atteggiamenti un po’ ingenui, un po’ troppo indulgenti, ottimisti e a volte anche troppo generici e superficiali nell’evidenziamento e nella messa in guardia contro i mali, vizi ed errori pur sempre presenti anche negli uomini e nelle società del nostro tempo”. A questo si è affiancato subito nel post-concilio la forza impressionante della cosiddetta corrente “progressista”, sarebbe meglio dire “modernista”,che si presentò come “interprete dello ‘spirito’ del Concilio, accentuò ulteriormente, anziché – come si sarebbe dovuto fare – correggere questo difetto, provocando nel costume ecclesiale un indebolimento delle difese immunitarie, forme di sincretismo e relativismo ed una tendenza morale al lassismo, al soggettivismo, al secolarismo e all’edonismo – pensiamo alla famosa ‘contestazione’ degli settanta – i cui frutti amari oggi stiamo sempre più sperimentando in tutti gli ambienti della vita ecclesiale, nel clero e nel laicato, dalla teologia alla cultura, dalla famiglia, alla società, dalla scuola agli ambienti del lavoro, dalle comunità religiose alle associazioni laicali”. Ricordo sempre cosa disse Vittorio Messori in una conferenza di qualche anno fa presso la parrocchia dei “Pavoniani” a Milano a proposito di questo periodo “disgraziato” della Chiesa, preti e religiosi che come un fiume carsico si spogliavano della talare e magari si sposavano tradendo il loro ministero. Questa situazione di profonda crisi veniva e viene alimentata e promossa da quei teologi, che magari hanno partecipato come periti al Concilio, come Rahner, Schillebeeckx e Kung, che con “il pretesto di mutare linguaggio e modi espressivi”, hanno finito di “mutare concetti e dottrine dogmatiche, che viceversa si sarebbero dovuti religiosamente conservare e semmai difendere ed ulteriormente spiegare ed esplicitare, come del resto aveva fatto lo stesso Concilio”. Giovanni XXIII lo aveva detto esplicitamente: “Il Concilio avrebbe semplicemente dovuto spiegare ed esprimere in modo nuovo quel medesimo patrimonio di verità di fede immutabile e inviolabile che si sarebbe dovuto trasmettere inalterato alle generazioni del presente e del futuro”. Questo oggi è un compito ecclesiale urgente 2da correggere, non certo tornando sic et simpliciter ai metodi del pre-concilio, come vorrebbe un certo tradizionalismo miope e arretrato, ma tuttavia recuperando con moderazione alcuni elementi essenziali e tradizionali oggi dimenticati dell’azione pastorale in saggia congiunzione con le nuove direttive conciliari”.
DOMENICO BONVEGNA
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