Detenere le impronte digitali di una persona non condannata per un reato viola il suo diritto al rispetto della vita privata. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con una sentenza di condanna emessa il 18 u.s. nei confronti della Francia, che teoricamente può essere applicata a tutti i 47 Paesi che aderiscono al Consiglio d’Europa e quindi anche all’Italia. Il caso riguarda un cittadino francese oggetto di due diverse indagini sul furto di libri a cui sono state prelevate le impronte digitali nel 2004 e poi nel 2005. La prima indagine si è conclusa con un’assoluzione, la seconda con un non luogo a procedere. Quando l’uomo ha chiesto alle autorità di rimuovere le sue impronte digitali dal database nazionale, queste hanno acconsentito solo per quelle prelevate nel 2004. Motivazioni che hanno indotto Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, a ripetere un fermo e chiaro invito alla moderazione nell’uso di questi strumenti, in quanto è troppo invasivo della sfera personale e della libertà individuale. Ciò per evitare gravi ripercussioni per i diritti individuali in caso di violazione delle misure di sicurezza, di accessi di persone non autorizzate o comunque di abuso delle informazioni memorizzate. La tecnica delle impronte digitali, inoltre, non solo non è sicura ma, sfidata com’è anche dalle tecnologie della falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione delle impronte all’insaputa dell’interessato, in occasioni e luoghi che questi non ha mai frequentato. Senza contare, inoltre, che solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra quasi che si impadronisca del corpo altrui.