UN 25 APRILE PER LIBERARE LA MEMORIA DALLA GABBIA DI FERRO

Mentre si festeggia il consueto e logoro 25 aprile Beppe Grillo dal suo blog tuona: “Se i partigiani tornassero tra noi si metterebbero a piangere”. Forse è utile anche per Grillo ricordare un poco tutta la storia della Resistenza, dei partigiani comunisti e quindi del Partito Comunista Italiano. E’ un lavoro che sta facendo bene il noto giornalista Giampaolo Pansa con i suoi libri sulla guerra civile, ormai diventati bestseller. Ho in mano I vinti non dimenticano, pubblicato da Rizzoli nell’ottobre del 2010 e proprio nella Nota al lettore, l’autore suggerisce “come celebrare il 25 aprile”. Pansa scrive anticipa subito che intende occuparsi proprio dei vinti, dei fascisti, perché ormai per oltre sessant’anni, si è parlato e si è scritto moltissimo, dei morti appartenenti alla cosiddetta Resistenza. Pertanto la cultura dominante, quella dei vincitori rossi, ha ordinato che dei vinti non si deve parlare, non si deve scrivere nulla, non si devono ricordare. Invece Pansa insiste a ricordarli. Ma prima di narrare alcuni episodi di cui sono rimasti vittime uomini e donne che non appartengono ai partigiani, soprattutto alla fine della guerra, segnala ai lettori che cosa è stato il vertice politico e militare del vincitore della guerra civile: il Partito comunista italiano.
Per anni le sue fortune dipendono dall’aiuto di Mosca. Ci sono dirigenti che si sono addestrati politicamente e militarmente nelle università riservate a loro a Mosca. Dirigenti che poi hanno avuto il loro “battesimo del fuoco” nella guerra civile di Spagna contro il nazionalismo fascista di Franco. Dopo la sconfitta in Spagna li ritroviamo in Italia e qui vogliono ad ogni costo la rivincita. Sono gli “spagnoli” a formare il primo nucleo delle Brigate Garibaldi, al comando di Longo e del commissario politico Pietro Secchia. Dopo l’8 settembre 1943, i comunisti sono gli unici in grado di muoversi subito. Gli altri gruppi del Cln saranno sempre dei comprimari, anche se emergono dei partigiani significativi come Aldo Castoldi, il leggendario Bisagno.
Il Pci, secondo Pansa, in pratica sa cosa fare, e lo racconta in due capitoli del libro: “decide che bisogna uccidere subito il maggior numero di fascisti, soprattutto quelli di terza e quarta fila, i più indifesi. Senza preoccuparsi delle rappresaglie, vale a dire delle fucilazioni decise dai comandi della Rsi.I capi comunisti, a cominciare da Longo e Secchia, sono rivoluzionari che conoscono sino in fondo l’importanza del cinismo. E pensano: più brutale sarà la reazione dei fascisti di fronte agli omicidi compiuti dai Gap, più la guerra civile si estenderà. E’ una previsione azzeccata, che farà scorrere fiumi di sangue”.
In pratica giorno dopo giorno i partigiani comunisti attuano una guerriglia terroristica su larga scala, tanto nelle grandi città che nei piccoli centri. E’ una lotta che i comunisti continueranno a praticare durante l’intera guerra civile fino al 1948.
Nella nota Giampaolo Pansa spiega chiaramente che cosa volevano fare i partigiani comunisti in Italia e chissà se Grillo è a conoscenza di quello che ha scritto Pansa. I partigiani “vogliono conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno stato satellite dell’Unione sovietica. Pertanto, scrive Pansa, “non occorre essere docenti di storia contemporanea per sapere che questa è la verità. Eppure le tante sinistre italiane, tutte figlie o nipoti del vecchio Pci, ancora nel 2010 continuano a negare l’evidenza”. Secondo Pansa i comunisti, ex o post non vogliono fare nessun revisionismo e seguitano a condurre ancora una battaglia di retroguardia, come quei poveri giapponesi isolati in una giungla che non esiste. Fanno pena queste sinistre anche quelle che si dicono riformiste, parlano ancora con un linguaggio da anni cinquanta. Ma che cosa temono le sinistre? Si domanda Pansa: temono “il crollo della retorica resistenziale, la cosiddetta vulgata che hanno sempre difeso e praticato. E di conseguenza paventano di dover riconoscere la grande bugia spacciata per anni ai loro tifosi”. E’ un terrore che li spinge a ignorare quanto ormai si trova in numerosi libri di Storia. Del resto era arcinoto che i partigiani comunisti si battevano per una democrazia popolare, chiamata in seguito, “progressiva”. Lo sapevano tutti compreso il generale Raffaele Cadorna, il ministro della Guerra, Alessandro Casati, ma soprattutto il grande Renzo De Felice era consapevole che i comunisti non volevano una democrazia parlamentare con più partiti, il loro traguardo era arrivare alla dittatura del proletariato. Secondo lui il Pci è un partito per niente riformista ma staliniano, lo si poteva notare per l’asprezza e spesso per la “ferocia dimostrata nella guerriglia. Chi ha per traguardo una dittatura rossa non va tanto per il sottile. Sopprimere i fascisti non significa solo togliere di mezzo un avversario nella guerra, ma prepara anche il terreno allo scontro futuro”. Del resto anche la soppressione dei partigiani non comunisti, antifascisti liberali, possidenti, sacerdoti, politici moderati, socialisti riformisti, va nella stessa direzione, mettere fuorigioco i possibili avversari della fase successiva alla lotta di liberazione.
Tuttavia per Pansa anche “le mattanze del primo dopoguerra fanno parte di un disegno strategico del Pci. Non sono scoppi di furia popolare, o un insieme di vendette personali. Bensì eccidi programmati in vista della spallata rivoluzionaria”.
In sostanza per Pansa se è stata evitata una liquidazione di massa, molto più pesante dei 20 mila uccisi dopo il 25 aprile 1945, lo dobbiamo soltanto alla presenza in Italia delle truppe americane e inglesi. Nei Paesi europei “liberati” dai compagni sovietici o di Tito, le cose sono andate diversamente: un colossale bagno di sangue. Pertanto dopo anni di ricerche e di letture sulla guerra civile, Giampaolo Pansa si pone la domanda: “dobbiamo ancora considerare una festa unitaria il 25 aprile?” Pansa fa riferimento a tutto il fronte antifascista, un mondo molto variegato che va dai democratici ai liberali fino ai staliniani falliti.

DOMENICO BONVEGNA
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