di Arianna Tascone
Ci sono ferite che rimarginano in fretta e lasciano solo una leggera ombra passeggera. Altre invece, più profonde, lasciano un marchio indelebile, segno del dolore provato e superato. Infine ci sono le più infami, quelle che non accennano a rimarginare. Quelle che continuano a infettarsi, a bruciare, senza possibilità di guarigione.
Ferite sulla pelle o ferite nella storia dei popoli, c’è poca differenza. Guerre, crisi economiche, attentati: lacerazioni della serenità, pronte a infettarsi in ogni momento. Il popolo italiano ne ha molte, forse troppe, inflitte in epoche lontane e ancora sanguinanti.
Gli anni di Piombo, a esempio. Il Muro di Berlino è crollato, la netta separazione del mondo è solo un ricordo, i rossi e i neri di allora accennano larghe intese. Eppure qualcosa è rimasto, un ultimo granello di sabbia nella ferita, così difficile da eliminare e che continua ad infettarla.
C’erano i rossi e i neri, era facile distinguerli e poi c’erano loro, i celerini. Con chi stavano i celerini? Con i rossi non di certo, forse con i neri. Molto probabilmente, con nessuno. Erano solo figli di poveri, come ipotizzò Pasolini. Noi posteri, siamo ancora troppo giovani per definire la sentenza. Possiamo tuttavia analizzare come questo rapporto conflittuale sia rimasto tale, nonostante le innumerevoli differenze con quegli anni.
L’opinione pubblica ha avuto un netto riavvicinamento alle Forze dell’Ordine e alle Istituzioni in generale, negli anni dello stragismo mafioso. Il lunghissimo elenco di magistrati, carabinieri e poliziotti, accanto a quello altrettanto lungo di civili uccisi dalla malavita, imponeva una scelta di campo radicale. Senza se e senza ma, contro la mafia, tutti insieme. Si doveva essere orgogliosi di quegli uomini e di quelle divise.
Ora, a distanza di anni, con il processo sulla Trattativa in corso di svolgimento e senza lo slancio emotivo di quegli omicidi, iniziano a venir fuori se e ma a lungo rimasti inespressi. Soprattutto alla luce di alcuni eventi nei quali le stesse divise, ma altri uomini, si sono macchiate di sangue innocente.
Il sangue di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Carlo Giuliani e ultimo Davide Bifolco. Sangue innocente perché versato ingiustamente, circostanza che non cancella certo la colpevolezza di questi ultimi. Ma può bastare la colpevolezza penale a giustificare la morte di un ragazzo, seppure accidentale? Questo quesito riaccende l’antico astio e riporta su diverse barricate la popolazione civile e le Forze dell’Ordine.
Come se tutto fosse o bianco o nero, senza possibilità di sfumature. O boia o eroi. Una distinzione così definita e così soggettiva al tempo stesso. Eppure basterebbe poco per cogliere tutte le tonalità di grigio che storie come queste presentano. Basterebbe a esempio una giustizia celere, in modo da non lasciare all’opinione pubblica il compito di decidere chi è il carnefice e chi la vittima. Colpevole o innocente, ci sono le leggi e ci sono i giudici per interpretarle.
Le leggi, che dovrebbero essere uguali per tutti. Ecco, allora basterebbe che lo fossero per davvero. E poi, una volta applicate, basterebbe scacciare quell’odioso morbo del cameratismo che rende un colpevole innocente solo perché nostro simile.
Scendiamo dunque da queste barricate tirate su a difendere chissà quali posizioni. Altrimenti arriverà il giorno, in cui guardandoci indietro non ricorderemo più cosa difendiamo, ma solo ciò che attacchiamo.