Essere celibe per legge significa essere necessariamente casto?

di ANDREA FILLORAMO

“Apologia della storia o Mestiere di storico” è un’opera di Marc Bloch. Si presenta come uno dei maggiori classici della riflessione di metodologia storica del Novecento. Alla domanda "a che serve la storia" Marc Bloch risponde sostenendo che la storiografia analizza "il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato". Questo è anche il compito che mi propongo nella mia scrittura ed è l’obiettivo che ora cerco di raggiungere nel rispondere ad una domanda che ha fatto seguito all’intervista sul celibato ecclesiastico. Un lettore, infatti, mi chiedeva: “Essere celibe per legge significa essere necessariamente casto, cioè privarsi di ogni contatto sessuale?”. Per rispondere a questa domanda occorre consultare il presente e il passato. Nel presente la risposta a questa domanda la dà il cardinale José Castillo Lara, presidente del Pontificio Consiglio per l’ interpretazione dei testi legislativi della Chiesa. Per il cardinale Il celibato in sé indica la condizione di “non sposato”. La castità è la sua conseguenza logica. L’obbligo della castità, a parere del cardinale, è assunto dal sacerdote già da quando viene ordinato diacono. Ciò secondo il canone 277 del diritto canonico, dove c’è scritto che, per l’ordinazione e per l’impegno solenne preso davanti a Dio “I chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il Regno dei cieli”. Secondo il porporato, quindi, il prete che viola la promessa di castità compie un atto contro la religione, un “sacrilegio”, in quanto “profana” una persona sacra. Non è sufficiente l’imposizione di una legge ecclesiastica, quella del celibato, non basta l’aspetto giuridico, occorre, quindi, secondo tale parere, considerare l’aspetto teologico. Chiunque facilmente comprende che l’Eminenza Reverendissima congiunge in modo surrettizio il fatto giuridico, “il celibato” con un dato teologico, “sacramentale, l’”ordine Sacro“, creando così una grande confusione dei due piani che non sempre si incontrano. Se ciò fosse vero, nella Chiesa Cattolica ci sarebbe una moltitudine di preti “sacrileghi”, “profanatori di persona sacra”. Basta, infatti, consultare le statistiche di questi ultimi anni sul tema della presunta castità dei preti. Iniziamo con la ricerca fatta dal Dr. A. W. Richard Sipe, psicoterapeuta ed ex monaco benedettino. Egli ha intervistato 1.000 sacerdoti e 500 altri uomini e donne, molti dei quali hanno ammesso di aver avuto contatti sessuali con ecclesiastici. La rivista Time riferisce che, secondo il dottor Sipe, circa metà dei 53.000 sacerdoti cattolici degli USA infrangono il voto o la promessa del celibato. Secondo Sipe, circa il 28 % dei sacerdoti hanno relazioni con donne, mentre un altro 10-13 % d’essi hanno rapporti sessuali con uomini adulti e il 6 % con bambini, di solito maschi. Se, poi ci muoviamo dall’area americana a quella europea, le cose sostanzialmente non cambiano. Secondo una ricerca di Rodríguez Pepe, il 95% dei preti si masturba, il 60% ha relazioni sessuali, il 20% è omosessuale, il 7% abusa di minorenni. Da un campione egli ricava che: il 53% ha relazioni sessuali con adulte, 21% con adulti, 14% con minori maschi e il 12% con minori femmine (“La vida sexual del clero”, Barcelona, 1995.) Il sociologo James G. Wolf è arrivato a queste conclusioni: il 58% pensa che il celibato sia un ideale piuttosto che una legge alla quale obbedire. Il 35% pensa sia un impegno a non sposarsi piuttosto che a non vivere alcuna attività sessuale.. Eugen Drewermann, scrittore, critico, teologo ed ex sacerdote, sostiene che in Germania, su un totale di 18.000 sacerdoti, almeno 6000 vivono con una donna, per non parlare di altri dati riguardanti l’Europa. In Italia? Da quel che so, nessuna indagine è stata fatta. Scrive ancora Rodriguez Pepe: “Personalmente non ho nessun dubbio che se la castità ed il celibato, si vivono con maturità ed accettazione piena, si possono convertire in un valido strumento per la realizzazione personale sul piano religioso (anche se questa non è che una delle vie possibili, come dimostrano altre ed altrettanto degne religioni). Però seguire questo cammino non è nè facile nè possibile per la maggior parte degli esseri umani. Per riuscirci, il sacerdote o il religioso/a dovrebbe imparare, da giovane e disciplinandosi in forma progressiva, a sublimare le sue pulsioni sessuali con maturità, invece di limitarsi a reprimerle mediante meccanismi neurotici, carichi di angustie, e basicamente lesivi e distruttori della personalità. Però nessuno forma i futuri sacerdoti in questo modo. Nei seminari e nelle case di formazione religiosa si teme tanto la sessualità -della quale si ignora quasi tutto- che si è arrivati addirittura all’estremo di prescrivere la sua pura invocazione naturale,e si cerca di occultare la realtà biologica affettiva che, inevitabilmente, finirà per farla affiorare con forza”. Il pensiero del Pepe su questo argomento, quindi, è certamente più che chiaro. Le ricerche citate e altre ancora riguardano ovviamente il presente, per quanto riguarda il passato le ricerche diventano “ricerche storiche” rintracciabili nei documenti e nella storiografia. Basta, così, leggere i “documenti storici” e veniamo a sapere del “godimento dei sensi”, della “lussuria sfrenata” e dei molti episodi di perversioni degli ecclesiastici, compresi i pontefici. Le citazioni possono essere tante. Il rischio, però, è quello di fare pornografia, ben sapendo che sono stati proprio gli ecclesiastici del passato a produrre le opere più importanti pornografiche. Ne cito alcuni Aeneas Silvius, pseudonimo del Piccolomini, futuro Papa Pio II (1458-1464) da giovane così scriveva: ”ho paura dell’astinenza che, per quanto lodevole sia, è più facile dire che praticare, e meglio si addice ai filosofi che ai poeti. Quanto alla castità, per Ercole, proprio non ne ho merito perché, per dire il vero, è piuttosto Venere che mi sfugge, che io che sfuggo lei”. Aeneas Silvius scrisse in età adulta il lungo poema in versi “Nymphiplexis” e la commedia oscena “ Crysis”, che si svolge tra prostitute, e inoltre, “Eurialo e Lucrezia”, una novella che vede tradimenti, una prostituta di professione e abbondanti descrizioni di oscenità di ogni genere. Hubert nel suo volume “ I Gesuiti” descriveva le attrazioni piene d’amore anche sensuale che ispirava la Vergine a preti che degeneravano con manifestazioni licenziose. Sempre dello stesso tema è il gesuita Juan Eusebio Nieremberg y Otin ( 1595 -1658), nel suo De affectu et amore erga Mariam Virginem, matrem Jesu (1645). Dal medioevo sino al 1900 i “Manuali per la Confessione” abbondano di particolari erotici. Torniamo al discorso della lussuria degli ecclesiastici. S. Girolamo affermava: «Una donna, che resti sola con un sacerdote, fugga dicendo che deve andar di corpo». Giovanni VIII (872-882) andava a letto col marito di una nobildonna genovese; i parenti di costei lo finirono a martellate sul capo. Giovanni XII (955-963), che morì per mano di un marito, ordinava vescovi i bambini, poi li deflorava e pervertiva e, inoltre organizzava assalti di asini e cani alle prostitute. Il Concilio di Reims (1049) s’occupava delle penitenze da infliggere a religiosi e laici che si masturbassero etc…..etc… Urbano IV (1195 -1264) riunì tutte le prostitute nella cappella sotterranea di Santa Maria, pretese poi di incassare una parte degli introiti. Leone X (1513-1521) era sofferente per le ulcere provocate dalla sodomia, continuò la ormai consolidata pontificia tradizione di “impresario“ delle prostitute romane; ne sistemò settemila in un quartiere controllato dalle truppe pontificie ed esigeva poi il 40 per cento.. Il Guicciardini afferma che il Papa Leone X era dedito, eccessivamente e senza vergogna, in quei piaceri che, con onestà, non si possono nominare. Pio V (1566-1572) vietava alle monache di tenere in convento cani e asini maschi. Se poi vogliamo citare alcuni esempi di pedofilia dei papi, facciamo riferimento a Sisto IV (1414 –1484), denominato “puerorum amator” tanto che, oltre ai propri nipoti Pietro e Girolamo Riario, amò un giovane che salì poi, per le sue lubriche compiacenze, alla sedia vescovile di Parma e fu pure insignito dalla porpora cardinalizia. In questo genere amatorio sono stati: Innocenzo VII (1404-1406) e Paolo III (1434-1549), il cardinale di Montalto, che fu pontefice col nome di Sisto V (1585-1590). Nulla può meravigliarci per il prestigio della dignità del Papa, quando si pensi che in quei secoli vi erano sétte religiose che difendevano la sodomia: i Nicolaiti volevano che la carne fosse “polluta”, per essere più gradita a Dio, e i Cainiti reputavano immorale non fruire dei piaceri tribadici e sodomitici. La lettura di queste notizie non costringe nessuno a pensare, aldilà delle statistiche citate e dei fatti storici richiamati che oggi tutti gli ecclesiastici o la maggior parte di loro infrange l’impegno della castità ma si vuole affermare che essere celibe non significa necessariamente essere casto. E’ certo che la strada che conduce alla rinuncia del sesso per il Regno dei Cieli è irta di difficoltà di ogni genere. Il prete, a partire dagli anni del seminario per riuscirci deve imparare che deve disciplinarsi in forma progressiva, avendo sempre davanti l’obiettivo che vuole raggiungere. Già negli anni 70 Rulla aveva sottolineato le conseguenze negative di certe disfunzioni affettive nella struttura di personalità di quanti intraprendevano la vita sacerdotale. In particolare egli aveva osservato che le loro difficoltà psico-affettive non erano un fatto episodico o accidentale ma riguardavano "inconsistenze psichiche centrali" che mettevano a nudo un certo contrasto tra i valori proclamati e le motivazioni subconscie del soggetto. Anche oggi, alcuni studi clinici più recenti effettuati tra il clero confermano tali affermazioni, soprattutto in riferimento ai disturbi dell’area affettiva e delle relazioni con la gente. In effetti, quanti vivono un’affettività poco integrata, e questo vale sia per i preti sia per i laici, tendono ad avere una cattiva qualità di vita e uno stile interpersonale ambiguo e inadeguato con la gente. Le conseguenze sono ancora più negative se il soggetto non è consapevole degli aspetti trasferenziali o comunque non è preparato a integrare i propri bisogni o i propri vissuti intrapsichici con quelli dell’ambiente relazionale in cui vive. Quando egli non riesce a stabilire chiari confini nel suo modo di essere e di amare, attiva relazioni disfunzionali e confusive che generano malessere e disorientamento dentro di sé e attorno a sé.