Il profilo del prete

di ANDREA FILLORAMO

Il mio recente lungo “riaccostamento estivo” a tanti preti del clero messinese, di cui ho condiviso, attraverso i miei articoli su IMG Press, la “sofferenza”, dovuta particolarmente, a loro dire, all’incapacità del loro vescovo che non avrebbe i requisiti richiesti per essere un buon pastore, né la sensibilità umana nel relazionarsi con loro, mi costringe a fare alcune brevi considerazioni “riassuntive”. Esse servono a fare chiarezza su alcune mie posizioni, concernenti, non tanto l’arcivescovo di Messina, del quale tanto si è parlato, quanto il “profilo” del prete moderno, cioè i suoi caratteri essenziali così come tracciati dalla ricerca psicologica. Essi si pongono all’interno di una Chiesa, che, come sostiene il Cardinale Sepe, arcivescovo di Napoli, “ tradisce se stessa perché, almeno in parte, ha perduto il valore del reale cristianesimo, della fedeltà alla Parola di Cristo, al sapore della rettitudine in ogni campo”. Per fare ciò faccio riferimento a “Viaggio fra gli uomini del sacro” Editore Piemme, di Vittorino Andreoli, noto psichiatra, che si serve di colloqui personali e terapeutici per ricostruire la geografia e la tipizzazione del prete, così come solo la psichiatria può farci conoscere. Colpisce la precisione con cui in varie pagine, in questo viaggio nel mondo del prete, Andreoli mostra di aver “interiorizzato alla perfezione sia il bello sia il brutto e il gramo che il prete italiano sa di sé, sia ciò che a questo tipo preciso di pastore sfugge”. Andreoli esalta il prete orante, santo, dedito al tempio e al sacro, ma anche il prete che si spende per le anime, formatore esemplare, estirpatore del clericalismo. Egli descrive un ideale interiorizzato nel quale il prete è solo senza comunità e senza vescovo: solo e preparato ad una sola cosa, il celibato, attorno a quello costruisce la propria identità spirituale e le proprie nevrosi, il proprio desiderio di santità e la propria voglia di “divorziare” da quella moglie petulante che è la purezza di cuore.“ Andreoli mette a nudo la contraddizione profonda di questa figura. “Se la Chiesa non vuol ridursi ad un piccolo esercito mobilitato da eventi mediatici, di aderenti a forme di fede pronunciate solo con l’inflessione interiore del fondatore, sanate da un amore al Papa vago e interessato, se essa vuol rimanere comunità aperta a tutti, deve contare sui suoi preti, trovarli, formarli”. Cosa che i colloqui di Andreoli dicono che non accade, non per una questione riguardante la modernità, ma per un nodo riguardante la fede. Rifletto su tali considerazioni di Andreoli e faccio passare sotto i miei occhi la schiera dei preti che conosco e scopro che all’interno di una forte crisi d’identità che non risparmia proprio nessuno di loro, vi sono diverse categorie. Alcuni, infatti, riescono a essere uomini di Dio; molti sono dei “faccendieri”, fra questi gli “organizzatori” del “turismo religioso”, non sempre economicamente disinteressato, molti sono in crisi per l’obbligo del celibato,“fardello” difficile a portare. Di questi ultimi sono non pochi coloro che da tempo hanno abbandonato la strada della “castità” e si arrangiano come possono, fedeli al consiglio della Chiesa, che dice: “caste, saltem caute”, che tradotto liberamente afferma: “Se riesci vivi in modo casto, ma se non riesci, cerca di fare il furbo, cerca di non farti pescare”. Tutti i preti conosciuti, tuttavia, qualunque sia la loro vita privata o pubblica, celebrano normalmente la messa, amministrano i sacramenti, reggono le parrocchie, predicano e, quindi, moralizzano, giudicano ma non amano essere giudicati. Molti, perciò, vivono in un regime costante di ipocrisia. Purtroppo l’ipocrisia è un vizio che colpisce soprattutto i preti. L’ipocrita – lo sappiamo – è spesso una persona che, conscia delle proprie qualità, cede alla tentazione di un’illimitata affermazione di sé: da qui l’ambizione e il carrierismo tipico dei preti, che sono dei veri scalatori sociali. Grazie alla loro furbizia, essendo degli adulatori, riescono magari a raggiungere posti elevati, dando ad intendere di non desiderarli. Diventano, così, degli ipocriti doppiogiochisti, con una doppia vita, per cui sul piano psicologico sono quasi degli schizofrenici. La loro condotta si pone, quindi, su due piani o potremmo dire due registri, incompatibili fra loro. Essi servono a due padroni: da una parte, nell’intimo, servono solo a se stessi nella loro brama di autoaffermazione e autoglorificazione; dall’altra fingono, nel comportamento esterno, davanti alle persone oneste, di servire Dio. Non si preoccupano, però, delle contraddizioni, e giungono anzi a giustificarle. “Rifondono”, così il “relativismo etico”, per il quale non esistono azioni buone o cattive in sé; ciascuna azione deve essere valutata caso per caso.