Quando un Papa si dimette

di ANDREA FILLORAMO

Molte sono state le “voci” e le “indiscrezioni” attorno alle dimissioni del Papa Benedetto XVI, voci e indiscrezioni soffocate dal clamore entusiasta attorno alla figura del nuovo papa Francesco, che, in poco tempo, ha attratto le “folle” di tutto il mondo. Pochi ancora credono alla motivazione riassunta in quel “ingravescente aetate”, che ancora fa eco nelle nostre orecchie e molti ancora si pongono la stessa domanda: “Chi ha spinto Papa Benedetto a mollare e perché?”. Dare una risposta a questa domanda significa anche leggere un capitolo molto tormentato della storia della Chiesa a partire dal 2005, anno di elezione del Card. Ratzinger al soglio pontificio, fino ai nostri giorni e a quel che succederà nel tempo a venire, nonché comprendere il clima che si respirava allora e ancora si respira nei palazzi pontifici. Mi riferisco a quel clima descritto in un libro che oltre Tevere ha fatto un gran trambusto, intitolato "Via col vento in Vaticano", casa ed. Caos e che ha come autori alcuni prelati anonimi che si firmano, pomposamente, "I Millenari". Il libro è in larga misura “mascherato”; racconta una sfilza di aneddoti su monsignori e nunzi, vescovi e cardinali, carriere, manovre, avventure piccanti, quasi sempre tacendo i nomi, tranne di alcuni. Per interpretare gli ultimi avvenimenti della Chiesa occorre tener presente questo clima. Ormai tutti sanno che nel conclave 2005 vi fu un testa a testa tra il Card. Ratzinger e il Card. Bergoglio, nell’ambito di una contrapposizione tra un gruppo più numeroso di cardinali che sosteneva la candidatura Ratzinger, e un altro, numericamente più ridotto, di stampo diverso, che era contrario. Quest’ultimo gruppo avrebbe fatto convergere i voti sul Card. Bergoglio, il quale non era però facilmente classificabile da una parte o dall’altra. Fu proprio il Cardinale di Buenos Aires a mettere tutti d’accordo, chiedendo a chi lo votava di smettere di farlo. La generosa “rinuncia” di Bertoglio e l’elezione di Benedetto XVI non ha, però, messo fine alla lotta intestina fra i due “ partiti” nella Chiesa né particolarmente messo a tacere l’ ostilità a Ratzinger, anzi, una volta che è divenuto papa, essa è aumentata, così come rivela un interessante studio del 2009 dell’Abbè Barthe, : “L’opposizione romana al Papa”. L’Abbè Barthe, fra le altre cose, dà un particolare che può essere interessante. Egli sostiene che, nel 2005, artefice di una possibile ma fallimentare elezione di Bertoglio al papato era stato il cardinale Achille Silvestrini . Ricordiamo che Silvestrini era stato soprattutto artefice del nuovo Concordato fra Stato italiano e Chiesa del 1984. Proprio Silvestrini portò a termine quell’opera cosi complessa anche perchè egli era intriso di principi di fede religiosa e al tempo stesso di costituzionalismo, privo dei risentimenti ottocenteschi per la fine del potere temporale, consapevole dell’importanza delle distinzioni e contemporaneamente della collaborazione fra Chiesa e Stato per finalità sociali e di costruttive relazioni internazionali. L’Abbè Barthe riferisce, quindi, che il cardinale Silvestrini, preso atto del fallimento del suo tentativo per esplicita volontà di Bergoglio a farsi eleggere papa, “immediatamente dopo il conclave aveva con urgenza tentato di rianimare le energie deluse facendo pubblicare su una piccola rivista di un’opera educativa da lui patrocinata, la “Villa Nazareth”, la foto d’una riunione “segreta” che avevano tenuto, prima dell’elezione, otto cardinali anti-Ratzinger, fra i quali l’italiano Martini, l’inglese Murphy-O’Connor e il francese Tauran”. Volendo fare riferimento solo a Martini, è’ cosa risaputa che l’arcivescovo di Milano e Bergoglio avevano una sostanziale identità di programma, che era quello che Martini aveva steso alla fine del Sinodo dei vescovi d’Europa del 1999. I “nodi” che, secondo il Card. Martini, la Chiesa doveva sciogliere nel nuovo millennio erano i seguenti:- la carenza drammatica di ministri ordinati; l’ordinazione di uomini sposati; l’accesso alle donne, almeno, per iniziare, alle soglie del presbiteriato;- i problemi afferenti la “sessualità”, facendo appello ai diritti della coscienza individuale per superare l’effetto catastrofico per l’immagine che ne era derivata alla Chiesa a causa dell’Humanæ vitæ; – la “disciplina del matrimonio” , riesaminata onde permettere l’accesso dei divorziati risposati, all’Eucarestia;- “l’esperienza ecumenica da “rivitalizzare”. Fin qua la “ lotta intestina” fra “conservatori- tradizionalisti” e “ progressisti- modernisti” ( chiunque comprende che i termini sono convenzionali), con l’esito dell’elezione, nel 2005, di Ratzinger al papato, quindi, della vittoria dell’ala conservatrice su quella che, per intenderci, chiamiamo “progressista”. Da ciò facilmente si evince che, fatte salve la “ buona fede” del papa tedesco e la sua consapevole e professata fedeltà al vangelo, egli indubbiamente, durante il suo pontificato, si è trovato a vivere dentro una “maglia di ferro”, che i tradizionalisti gli hanno imposto e che lui, pur con la lacerazione della sua coscienza, non ha smesso mai di indossare. E perché non aggiungere che Ratzinger, a un certo momento del suo pontificato, impossibilitato ad intervenire sui complessi problemi della Chiesa, ha dovuto prendere atto del suo “fallimento” e, quindi, ha deciso di dimettersi? Non intendiamo fare “ il processo alle intenzioni”; se ciò non è possibile nei confronti di un uomo “comune”, immaginiamo nei confronti di un Papa; ma atteniamoci ai fatti. Il papa tedesco, innanzitutto, non risulta che avesse, come i suoi predecessori, un programma di governo, ma si proponeva solo, stando a quello che egli stesso ha dichiarato all’inizio del suo pontificato, la “ sequela della parola di Dio”.. Senza un programma ben preciso, i problemi “lasciati aperti” dal suo predecessore, ed erano tanti, necessariamente erano destinati a marcire. Fra questi temi, per esempio, quello della comunione negata ai divorziati risposati: papa Ratzinger si proponeva di “studiarlo” nel 2005, appena eletto, e otto anni dopo, però, non aveva ancora una risposta. Un altro tema era quello della collegialità, tema cioè di un governo della Chiesa universale a cui partecipano i vescovi. La questione l’aveva ben chiara, quando da cardinale poche settimane prima dell’elezione, disse che la Chiesa non poteva più essere governata in modo “monarchico”. Per otto anni ha deciso invece le strategia fondamentali del suo pontificato verso i lefebvriani, i dissidenti anglicani o le questioni ecumeniche, in maniera solitaria e autoritaria. L’incapacità di reggere con mano ferma una Curia dilaniata da forti conflitti interni, l’incapacità di andare a fondo alle denunce di corruzione di monsignor Viganò o di sostenere il presidente dello Ior Gotti Tedeschi nella richiesta di fare certificare da un’agenzia esterna i bilanci della banca vaticana, sono stati il colpo finale per l’autorità di Benedetto XVI. Colpisce certamente il fatto del maggiordomo infedele, ma dovrebbe colpire maggiormente il problema che nessuno nel Vaticano di Ratzinger ha voluto discutere dei fatti emersi dalle carte. Chi ha il potere assoluto alla fine ne risponde senza mediazioni. Doveva essere un pontificato di transizione e si è, invece, trasformato in una stagnazione. Solo, quindi, andando indietro e cioè al 2005 e agli otto anni del pontificato di Benedetto XVI, possiamo solo immaginare cosa sia avvenuto nel conclave da cui è uscito Papa Francesco. Si tratta di una “rivincita” dell’ala cardinalizia e curiale progressista? Vogliamo pensarlo, anche se riteniamo che essa potrebbe diventare una “vittoria di Pirro” se fossero vere le notizie, che riteniamo delle “bufale” che ci giungono, che vogliono Francesco anche lui un dimissionario. Le notizie vengono da Antonio Socci, che scrive un saggio, che porta il titolo: “Non è Francesco. La Chiesa nella grande tempesta, Mondadori”. Il libro scatena un putiferio di polemiche, che il vicedirettore di “Libero” Maurizio Crippa seccamente stronca come “ciarpame senza pudore”. Il libro è dedicato a Papa Benedetto XVI, rivolto a Papa Francesco e destinato ai tanti lettori, credenti e non, desiderosi di saperne di più sull’inedita convivenza tra due pontefici in Vaticano. Secondo l’autore, Jorge Mario Bergoglio non è Francesco in un doppio senso: atteggiamenti pastorali e scivoloni dottrinali lo tengono distante dal modello di vita e dall’ortodossia cattolica di san Francesco; e soprattutto – ed è qui lo scoop del libro – irregolarità procedurali durante il Conclave renderebbero nulla la sua elezione al pontificato, privandolo in sostanza anche del nome Francesco. Ritengo assurdo e paradossale indossare la toga di avvocato di Papa Francesco. La risposta di Papa Francesco sta tutta nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, dove salta agli occhi la sua durissima presa di posizione nei confronti di tutta quella galassia tradizionalista che vive nell’alveo cattolico con la certezza di meritare la grazia: “pronto a polemizzare e gloriarsi delle proprie posizioni, il tradizionalista in parola si affretta a conquistare lo spazio che sancisce l’indiscutibile equivalenza della propria opinione con ciò che la Chiesa preconciliare – spesso solo quella che si può evincere dagli “anatema” – affermava. Nell’ “ Evangelii Gaudium” vi è “il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato”. Finisco citando il dissacrante Voltaire che termina in maniera esplicita il suo “Trattato della tolleranza” con una preghiera rivolta a Dio perché gli uomini riconoscano la loro comune piccolezza, cessino di perseguitarsi a vicenda, cosicché “coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti tollerino coloro che si accontentano della luce del tuo sole! che coloro i quali coprono la veste di una tela bianca per dire che bisogna amarti non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un manto di tela nera”.