di ANDREA FILLORAMO
Il “racconto” contiene un “monologo” di un giovane prete dei primi anni’70, del quale io mi sono “appropriato”. Si tratta di una “testimonianza”, fatta diventare, almeno nelle mie intenzioni, un “testo letterario”, in cui mi sono ritagliato il ruolo d’interprete, che cerca di accedere nei suoi processi psicologici. Ritengo di essere riuscito in questo intento, tant’è che qualcuno leggendo, con molta facilità potrebbe pensare che l’anonimato da me assegnato al protagonista sia solo un “espediente”, un “artificio” e che ci siano, quindi, invece, unicità e identità fra lui stesso e me stesso che sono l’autore. Si tratterebbe, in tal caso, di un’”escamotage” da me utilizzata allo scopo di proteggere la privacy di qualcuno. Lasciamo, magari, a chiunque la libertà di pensarlo, data la poco importanza di questo ipotetico enigma, voluto da chi intende soltanto far conoscere i problemi del giovane clero di allora e forse anche di adesso. Il “racconto” analizza particolarmente il momento iniziale di un processo, durante il quale, quel prete non ritiene più sostenibile per lui, il “ modus vivendi”, condotto fino ad allora e prospetta l’esigenza di una vita nuova con cui sostituirla, fino a giungere allo “strappo” operato quando, sollecitato dalla sua coscienza di uomo libero, “abbandona” il ministero. Richiamando il suo passato egli conserva ancora, come in un memoriale che contiene i suoi ricordi, i luoghi, i fatti e le persone che s’intrecciano e si rincorrono in un incessante e caotico ritmo, al quale vorrebbe porre ordine. Da evidenziare, però, che la memoria non restituisce sempre esattamente ciò che le è affidato. Essa, come dice Platone, è come una tavoletta di cera lasciata al sole, che con il passare del tempo, comincia a sciogliersi e alcuni caratteri, quindi, si cancellano. Talvolta, quindi, è necessario, ricostruire e immaginare in parte quello che nella memoria non vi è scritto.“ O immaginazione- scriveva Italo Calvino – che hai il potere d’importi alle nostre facoltà e alla nostra volontà e di rapirci in un mondo interiore strappandoci al mondo esterno, tanto che anche se suonassero mille trombe, non ce ne accorgeremmo! da dove provengono i messaggi visivi che tu ricevi, quando essi non sono formati da sensazioni depositate nella memoria?" Sappiamo che reale e immaginario, storie e finzione sono una specie di “continuum”. Per ricordare, per capire la realtà, infatti, serve l’immaginazione e per immaginare qualcosa, bisogna usare la memoria. Il confine è opaco. Questo non significa che tutto è reale e tutto è immaginario contemporaneamente, ma piuttosto che per comprendere il mondo è necessario “raccontarlo”. Le risposte non sono mai semplici.
Ho “abbandonato” il ministero tanto tempo fa. Sono passati molti anni da allora ma non posso mai dimenticare la moltitudine degli uomini e donne che la Provvidenza ha affidato alle mie cure “pastorali”. Non posso dimenticare neppure i miei “ compagni di viaggio”, cioè i preti del clero della diocesi di mia appartenenza, che hanno condiviso con me gli anni di formazione del seminario e parte dell’esercizio del mio e loro “ sacerdozio”. Essi occupano degli spazi ben precisi nella mia mente. In modo particolare, in tali spazi, trova una sua precisa collocazione uno di loro, un prete, del quale sono stato “vicario” In una parrocchia cittadina. A lui intendo riferirmi in questo mio “ scritto”, attraverso la delineazione del suo profilo umano. Nel fare ciò, non ho potuto a fare a meno del riferimento ad aspetti della sua personalità che indubbiamente provocano il riso. In tal caso, il riso, però, non vuole essere ironico. A tal proposito cito Giacomo Leopardi che scrive: “Chi osserverà bene, vedrà che i nostri difetti o svantaggi non sono ridicoli essi, ma lo studio che noi ponghiamo per occultarli, e il voler fare come se non gli avessimo”. Entro subito nell’argomento. Il prete, di cui intendo parlare, anzi sul quale intendo dilungarmi, era sicuramente un tipo strano, di una stranezza da definire unica e rara. Lo intravedo ancora fra le nebbie del ricordo del mio passato, come un uomo basso di statura, con le guance grassocce e cadenti, una zucca non del tutto pelata e una pancia grossa. Era, questo prete, inoltre, una persona divertente, una “sagoma d’uomo”, tanto era goffo, sia quando dondolando camminava, sia quando parlava, facendo precipitare le parole, dopo averle arrotolate dentro la sua bocca fra l’esofago e l’arco dentario, tanto da renderle spesso incomprensibili. Sarebbe stato un buon curato di campagna, un autentico don Abbondio, stando a come vediamo raffigurato il personaggio manzoniano nelle vecchie edizioni dei Promessi Sposi “ravvolto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina”. Anche il suo ufficio aveva una somiglianza con lo studio dell’Azzecca-garbugli manzoniano, che era uno stanzone occupato, da “ una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a forma di corna, coperta da vaschetta, con grosse borchie”. Quel prete viveva in modo trasandato, la sua tonaca era sempre piena di “patacche”; dimostrava una sua totale ma inconsapevole incapacità di essere o almeno di apparire una persona normale. Pur essendo di una rozzezza incredibile, tuttavia, mostrava una grande sensibilità, che lo costringeva anche al pianto, di fronte alle tragedie della vita, quale la morte o la povertà. Egli possedeva, inoltre, quella “ dote che spinge l’amico a farsi avanti non appena intuisce l’esistenza di una difficoltà, prima che si trovi il coraggio di chiamarlo; che risolve amichevolmente i malintesi, prima che degenerino in astiosi e prolungati rancori; che mette gli altri a proprio agio, nelle situazioni in cui si sentono esposti e indifesi”.
Spesso con il mio ricordo ritorno alle messe domenicali di questo prete, che erano delle vere ”farse”, conosciute in tutta la città; tant’è che, ogni domenica alle undici, la chiesa si riempiva all’inverosimile; assistevano alla messa credenti e non credenti. Questi ultimi rinunciavano volentieri alla passeggiatina o alla visita ai parenti per partecipare allo spettacolo liturgico domenicale, che seguiva sempre lo stesso canovaccio, ma poteva anche riservare sorprese sempre nuove. E’ molto difficile ricostruire tale canovaccio: l’ilarità, addirittura lo sbellicarsi dalle incontinenti risate nasceva dalla diretta partecipazione a quello che doveva essere “il sacrificio di Cristo” ed era il totale sacrificio di un atto sacro liturgico, reso, profano, ma molto profano. Ci sforziamo di rappresentarlo: Il prete usciva da dietro l’altare con il camice mal messo, con le scarpe slacciate, con la mano sinistra si grattava la nuca, porgeva al chierichetto il calice, coperto dalla patena e con la mano destra, facendo cenno alla gente che stava in fondo alla Chiesa urlava: “ Che cosa fate laggiù, venite avanti, c’è posto per tutti. Gesù Cristo accoglieva tutti, anche i peccatori, anche le prostitute e se qualcuno non capisce l’italiano (diceva a voce bassa per non farsi sentire da tutti)…. anche le buttane…”. Da qualche angolo della chiesa proveniva una voce di vecchia donna: -“Chi dicisti? Ripeti…non sintia.“ “Chi è stato?!….se qualcuno vuole disturbare si accomodi fuori dalla casa di Dio”, diceva, subito, il prete, aggiustandosi i neri pantaloni che scivolano pericolosamente sotto il camice. Ripetendo, poi, improperi, ansimando e sbuffando, saliva l’altare, chiedeva per sé e per gli altri perdono a Dio dei peccati e, infine, si sedeva in una quasi “sedia gestatoria”, predisposta davanti all’altare maggiore, per ascoltare, assieme ai fedeli, la parola di Dio. “Dalla lettera di S. Paolo Apostolo agli Efesini”, recitava il lettore, un bambino di circa dodici anni. – “ Ma chi fai…… cretinu…, babbu.! sbagghiasti, semu ttà secunna dominica d’avvento!”-, gridava dall’alto del suo “trono” il celebrante. Così dicendo, si precipitava sul povero ragazzo che era felice di prestare la sua voce all’Apostolo Paolo, lo allontanava grossolanamente dal leggio, sfogliava concitatamente l’epistolario; bagnando con la saliva il suo indice, cercava e ricercava, con la forza delle sue dita umidicce, strappava quasi le pagine, ripetendo: “Leggo io, leggo io…lo sapevo che avresti sbagliato…. questa è l’ultima volta che…”. Poi iniziava la lettura della parola di Dio e cosa leggeva? La lettera di S. Paolo agli Efesini. Nel frattempo il ragazzo abbandonava mortificato il transetto dicendo: -“Non ho sbagliato……non ho sbagliato!”-“ Mutu!”- lo rimproverava il Parroco, interrompendo per qualche istante la lettura. Nessuno ascoltava la parola di Dio, si sentiva un mormorio diffuso in tutta la chiesa, come se fosse passato un moscone, mancava solo l’applauso per essere in un teatro. Ma il bello ancora doveva venire! Si giungeva, così, al momento dell’omelia, preparata sempre con tanto scrupolo dal parroco e si vedeva dalla quantità di giornali e di libri, depositati su uno sgabello accanto. I libri erano con l’angolo retto che stava in alto a destra di una o più pagine, girato verso l’interno per indicare là dove il prete doveva attingere la notizia o l’informazione o anche la citazione da far conoscere ai fedeli. I giornali erano tutti segnati con un pennarello rosso. Libri e giornali, quindi, dovevano servire ai vari riferimenti, alla cronaca, agli avvenimenti che il prete doveva fare nello spiegare il vangelo, voleva rendere attuale la parola di Dio. Ottimo tentativo di modernizzazione della predicazione, che difficilmente riusciva a causa di quel sacerdote, che, oltretutto, avendo dei gravi disturbi intestinali, correlava la sua spiegazione del Vangelo con quanto indicava il dantesco verso: ” e del cul fece trombetta”. Tutti ridevano, ma egli non si scomponeva e ad ogni sgradito suono, aprendo le braccia, esclamava: “ Sia fatta la volontà di Dio!” oppure:” Deo gratias”o ancora:” “che volete, è tutta grazia di Dio!”.
Tanti altri episodi esilaranti si possono raccontare di questo prete, ma ciò significherebbe rendere esilarante anche questo scritto che vuole essere invece uno scritto che racconta una storia molto seria. Ne raccontiamo solo uno per finire: era la notte di Pasqua, benedizione del fuoco alla porta della chiesa. Il parroco aveva preparato e fatto preparare il rito con tanta cura e invitava il suo Vice: “ Le raccomando, che i chierichetti sappiano quello che devono fare e si attengano scrupolosamente alle disposizioni date”, diceva. Davanti alla porta della chiesa, come ogni anno, si era formato un gruppetto di fedeli assonnati, mentre il parroco, con tutta la sua corte, armeggiava attorno ad alcuni fuscelli resi pronti a prendere fuoco. Qual era stata l’idea geniale di quel prete? Quella di soffiare, schiacciandola con tutte e due le mani sulla scintilla precedentemente predisposta, una bottiglia di plastica contenente dell’alcool, comprata quel pomeriggio. Questa sua “trovata” l’aveva tenuta nascosta a tutti ma era convinto che solo in quel modo non si dovesse più faticare per accendere il fuoco e rendere, quindi, il rito, più celere. Non l’avesse mai fatto! Improvvisamente si alzò, dal tizzone appena attinto da una scintilla, una lingua di fuoco, che dopo aver volteggiato per poco nell’aria, facendo sparpagliare la gente, si è precipitata proprio sul parroco. -“ Fuoco! fuoco! prendo fuoco!”-, gridava l’imprudente, mentre correva lungo la navata centrale della chiesa, con i paramenti che cominciavano a essere divorati dalla fiamma. L’ha salvato un anziano, che si è tolta la giacca e con questa, buttandogliela addosso, ha spento il fuoco. Con il racconto dell’episodio del “ fuoco pasquale”, poniamo fine al registro comico, con il quale abbiamo cercato di delineare la figura di questo “ ministro di Dio”, che tanto bene ha fatto, regalando il riso e il sorriso ai fedeli che Dio gli aveva affidato. E’ adesso il momento di passare al registro“tragico”, ben sapendo, però, che il registro tragico si ibrida con il comico in un continuo incrocio. Correva voce nella parrocchia, anzi si sussurrava, che nel cortile della chiesa, all’estremità del suo lato est, vi era un recinto. Da tale recinto un giorno, dalla terra smossa era venuto fuori un teschio di un neonato. Lo notò il prete, scorgendolo fra i piedi di un bimbo, che lo colpiva come se fosse una palla e che, man mano che rotolava per terra, perdeva le sue vecchie incrostazioni di fango e terriccio e manifestava sempre più nitida la sua immagine di scatola cranica. “Fermati! fermati ti ho detto….fammi vedere!”, gridò il prete all’ignaro bimbo, che si accostava al muro di cinta, trascinando col piede quella che pensava fosse una ruvida palla. Voleva continuare a svolgere la sua funzione di “attaccante” di una immaginaria partita, mentre urlava: “ E’ mia,è mia! io l’ho trovata!”. Tirandolo rozzamente dalla maglia il parroco lo scostò, si chinò, raccolse quasi religiosamente, come se fosse una reliquia, il piccolo teschio; si accostò, quindi, alla fontanella, posta alla parete dell’ufficio parrocchiale, lo lavò con molta cura, e, così, gli restituì la sua totale visibilità. Il bimbo guardava incuriosito, non credeva ai suoi occhi, era quello proprio un cranio umano come quello che era raffigurato nel suo libro di scienze, là dove viene studiato il corpo umano. “ Ma è un cranio! – esclamò – Chi sa mai di chi era”. Il prete, volendo stornare l’attenzione del bimbo, gli rispose, mentendo: “Si è vero è un cranio, ma è di plastica, apparteneva ad un bambolotto!”. Non sappiamo cosa abbia fatto di tale teschio il prete; qualcuno diceva d’averlo notato sul comodino della sua camera con un lumino sempre acceso davanti. Sappiamo soltanto che egli si era premurato a sequestrarlo e a portarselo con sé, quasi a voler cancellare l’immagine di “qualcosa” o “qualcuno” che voleva tenere nascosto. Ma di chi era quel teschio? A quale bimbo era appartenuto? Si diceva che quel teschio fosse appartenuto a un bambino che molti anni addietro un suo predecessore in quella parrocchia aveva avuto con una donna del luogo. Il bambino era morto alla nascita? Era stato ucciso? Siamo convinti a propendere per la prima ipotesi. Morto il bambino, quel parroco – si mormorava – si era preoccupato di nascondere la “vergogna” e l’avrebbe seppellito nel cortile, là in fondo, sotto la terra battuta, da dove dopo tanti anni quel teschio di bimbo era venuto fuori. Che fine aveva fatto la madre? Si raccontava a voce molto bassa, che la donna, una giovanissima donna, dopo la nascita del bambino fosse stata internata in un manicomio, in uno stato becero di abbandono, ma, soprattutto di perdita della stessa umanità e dignità. E’ stata considerata e trattata come una bestia, punita dal prete che l’aveva resa madre. Nessuno si deve meravigliare della soluzione forse data da quel prete a quell’inaspettata gravidanza e alla nascita di quel bambino. In quei tempi, infatti, ricoverare in manicomio una donna, era molto semplice; bastava che una donna mostrasse qualche irrequietezza, dovuta a qualunque tipo di disagio, per finire, con l’intervento del marito o dell’uomo che si voleva sbarazzare di lei, internata in un ospedale psichiatrico, forse anche nel reparto delle “irrecuperabili”. Del resto non era quello l’unico esempio di donna “internata” per evitare uno scandalo. Alcuni anni prima vi era stata la storia di Ida Dalser, la donna che diede un figlio a Mussolini, uno scandalo soffocato e nascosto dal Duce stesso che portò Ida e il figlio a morire in manicomio. Ma, ecco cosa accadde – si dice – alla giovane donna della nostra storia. Prima di precipitare nel buio della mente, al quale la vita del manicomio obbligava, a futura memoria o forse con l’intento di denunciare il prete, la sfortunata aveva fatto pervenire a una parente un memoriale, che non si sa come, era diventato di quasi dominio pubblico, attraverso la cerchia ristretta delle “pie”donne che frequentavano la parrocchia. Il memoriale, conosciuto sicuramente o forse in possesso del parroco, raccontava una brutta storia fatta di molestie sessuali e tentativi di plagio da parte di quel prete di allora. Tutto avrebbe avuto inizio quando la donna era ancora una bambina e quasi ogni giorno frequentava la parrocchia. All’inizio il prete diceva alla ragazza che la sua amicizia era una cosa molto speciale, della quale non doveva parlare con nessuno perché non avrebbero capito. Piano piano, poi, ha creato un vuoto attorno anche rispetto ai genitori, dicendole che loro non potevano capire perché non erano delle persone colte. Non è difficile immaginare cosa succedeva nell’ufficio parrocchiale di quella parrocchia. Il tempo, intanto, passava e lui pretendeva sempre di più e la ragazza si sentiva come costretta a fare “quelle cose” perché altrimenti veniva a essere trattata con disprezzo e sufficienza. Ciò è accaduto fino a quando è rimasta incinta e ha partorito quel bambino.
Sono rimasto molto colpito dall’apprendere questa drammatica vicenda, fattami da una donna anziana ma ero anche molto meravigliato del fatto che il parroco, da me interpellato , dicesse che non ne sapeva nulla: lui che della sua parrocchia conosceva tutto, anche i pettegolezzi, che le penitenti gli raccontavano per distrarre dai loro peccati. “Ma quale cranio! Non so nulla – diceva – sono tutte calunnie, le solite calunnie dei comunisti…loro che mangiano i bambini. Quando finalmente la finiamo di parlare male dei preti? …. calunnie… calunnie, sempre calunnie..” Interrompeva il discorso, poi aggiungeva: “Se quanto si dice in giro fosse vero o fosse a mia conoscenza, avrei l’obbligo morale di nascondere, sempre nascondere, negare e ciò per il bene della Chiesa. La prego, quindi, di non chiedermi più notizie che io non ho o che io non posso dare. Lasci che i morti seppelliscano i morti…. non disturbiamo le anime dormienti…Questo deve essere un monito per ciascuno di noi!”. Ciò certamente “la dice lunga” di quello che allora era il mio parroco, per cui mi chiedevo continuamente: “chi è veramente questo prete con cui collaboro nel ministero?”. Questa domanda, però, improvvisamente si è interrotta quando il parroco, lasciò, dopo essersi dimesso, la parrocchia. Qualche tempo prima l’avevo sorpreso, senza volerlo, nello sgabuzzino, dove si raccoglieva la carta straccia per poi venderla a favore dei poveri: stava con una vecchia donna in atteggiamenti inequivocabili. Trasalì il Parroco mentre aprivo la porta dello sgabuzzino per metterci, dopo averli letti, i giornali del giorno precedente; trasalì e si compose alla meno peggio, mentre la donna, passandogli davanti, usciva precipitandosi sulla strada che dava sul torrente. “ Ma, Padre, è veramente disonorevole quello che stava facendo, non ho parole per definire il suo comportamento!”, sentenziavo, mentre ancora tenevo con la mano destra la porta dello sgabuzzino, lasciandola solo per permettere al parroco di uscire. -“ Ha ragione, ha ragione, sono un povero peccatore, mi vergogno maledettamente, ma sa….io…non volevo, certo che…”- farfugliava il prete. Era stata tale la sua umiliazione che per un certo periodo scomparve, non si è fatto più vedere in parrocchia. La sua assenza non poteva passare inosservata tant’è che si era sparsa la voce che era stato ricoverato in una clinica. Si fece rivedere circa un mese dopo, aveva chiesto al vescovo di essere esonerato dall’incarico parrocchiale per motivi di salute e fu accontentato, anzi promosso: “promoveatur ut amoveatur”. Triste è stato ancora il commiato con me: “le chiedo scusa”- diceva singhiozzando–“ so di non essere un buon prete, le ho dato cattivo esempio, …. quello che mi è successo non mi succede frequentemente, è stato…non so. qualcosa d’improvviso…, la natura dell’uomo è questa…fatti non foste a viver come bruti… Ma io non sono riuscito a metterla a freno…. ma per seguir virtude e conoscenza. Che Dio mi perdoni…… rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Quanta tristezza mi dava quel prete! Non si posso sottacere che davanti a quell’evento improvviso e inatteso ho subito un trauma che, per la sua particolare intensità, ha oltrepassato le capacità di elaborazione del mio io. Essa è stata un’esperienza che mi ha provocato vergogna e dolore, che ha avuto a che fare con la mia“sensibilità” individuale. Tutto mi aspettavo da quel prete, tranne quello che avevo visto proprio con i miei occhi. -“ Mai e poi mai diventerò come lui!”- Ripetevo continuamente, mentre mi portavo verso la mia abitazione: “ Si tratta di una patologia personale di quel prete oppure una malattia, alla quale tutti i preti, giunti ad una certa età sono destinati? ma come è possibile che accadano queste cose con tante pratiche di pietà, studi teologici, ritiri, messe? La formazione seminaristica non ha una qualche relazione di causa ed effetto con questi fatti? Certamente è così. Se per anni si induce il candidato a ignorare, se non a cancellare la propria corporeità, si potranno mai produrre presbiteri maturi? …. Se fin da ragazzi si è "educati" a vedere la sessualità con gli occhiali neri della cultura pagana, gnostica e manichea, come potremo avere dei preti capaci di portare il giogo della castità? Anch’io, però, ho avuto questo tipo di educazione e allora?”Mi convincevo, semplicemente, che la mancanza di uno sviluppo psico-sessuale "normale" può aver impedito ad alcuni di raggiungere uno stato celibatario sano. Ad alcuni soltanto o a tutti? Uno psichiatra riferisce che alcuni preti con difficoltà affermano che "nel presbiterato si possono coprire problematiche sessuali". Ci sono molte altre problematiche relative al celibato che possono essere terreno fertile per altri scandali. Se i preti fossero più santi non si porrebbe alcun problema. Ma mentre il prete una volta viveva all’interno di una società sacrale che lo valorizzava, oggi si è dentro a una sfida di solitudine, di anonimia, di marginalizzazione. Mi chiedevo, ancora: “Che sarà di me nel futuro? Mi affiderò alla grazia di Dio o alla mia volontà? E se la mia volontà cederà, Dio mi verrà incontro o egli stesso mi metterà alla prova? Da allora ero fortemente preoccupato del mio futuro di prete, lo vedevo come una grande voragine, in cui qualcosa di prezioso, che tenevo in mano poteva andare a perdersi. Mi sentivo come una persona sana che ha paura di perdere la sua salute. Mi sembrava quasi che una potenza avversaria fosse in agguato per strapparmi di mano quello che avevo. Mi sentivo, quindi, “destrutturato”. Non riuscivo a .superare queste strane sensazioni, anche se notavo in me un arricchimento emotivo che filtrava da quella storia che andava ad ampliare una rilettura della vita. Assumevo, persino, un atteggiamento rispettoso delle emozioni, dei pensieri, dei comportamenti di quel prete, al quale, da allora, mi sono sentito più affettuosamente vicino.“ O Dio mio!- pensavo con tanta tristezza- è possibile che tutti i preti soffrono di patologie sessuali? Anch’io appartengo al clero, fino ad oggi mi considero sano ma domani?”Mi chiedevo ancora, collegando le patologie sessuali dei preti con l’obbligo del celibato: “Che cosa esige la chiesa dal prete? Che egli non abbia una vita intima e sentimentale. Il suo oggetto d’amore è la comunità, non può esserci legame privilegiato con una persona. Di fatto il legame religioso non s’incontra con realtà psicologica. La richiesta di celibato fa sì che facilmente vengano selezionati coloro che non avendo mai provato desiderio sessuale, rinunciano a qualche cosa che non conoscono. A distanza di anni la sessualità può risvegliarsi in forme imprevedibili”. Così, mi assaliva prepotentemente la paura del mio futuro di prete. Ciò mi faceva cadere in una crisi profonda, crisi che non sono riuscito a superare. L’essenza della crisi stava nell’esperienza profonda che facevo della vita, del mistero, del corpo, del desiderio, dell’affettività. Prendevo atto che il disagio e la sofferenza impedivano di vivere in modo sereno e armonico queste dimensioni fondamentali e che, quindi, dovevo ripensare il mio stile di vita. Cosa che, dopo aver pensato lungamente, dopo essermi consultato con chi ne sapeva più di me, dopo aver chiesto a Dio di aiutarmi, con serenità, sfidando il mio futuro, ho fatto.