di ANDREA FILLORAMO
Caro don Salvatore, la tua “rimozione” dall’arcipretura di Taormina, ha provocato, come ovviamente tu ben sai, la reazione non solo dei tuoi parrocchiani che non ti dimenticano, ma anche di molti altri, che quasi subito si sono resi conto, che il motivo che ha indotto il vescovo a rimuoverti non era quello che tu avevi un’amante. Si trattava allora di una calunnia, una diceria coscientemente falsa che offendeva la tua reputazione di prete, inventata non sappiamo da chi ma conosciamo forse il perché. Tutti allora, inoltre, ci siamo chiesti il motivo per il quale molti tuoi confratelli, non pensando neppure che quanto era capitato a te potesse capitare anche a loro, invece di mostrarti la solidarietà che tu meriti, si sono chiusi in un totale silenzio e hanno fatto intorno a te il deserto più inquietante, anche se sollecitati, dalle righe di questo foglio elettronico, a superare la “ribellione silenziosa” e a “gridare dai tetti”, per restaurare la giustizia che forse loro stessi ritenevano gravemente offesa. Si trattava di paura di ritorsione? Forse. Ma se è così la loro responsabilità è maggiore. Tale deserto, a quel che so, a distanza di alcuni mesi continua ancora, anche da parte del vescovo, che ti lascia “senza lavoro”, non riconoscendo il tuo diritto, in quanto incardinato nella diocesi di Messina, di avere affidata la cura di una “ parrocchia” o di avere un “incarico” che renda effettivo il tuo ministero presbiterale. Di fronte a tale mancato incarico, c’è chi dice che esso derivi da una richiesta da parte tua di un “ anno sabatico” per “ riflettere sul tuo futuro” di prete. Anche questa è una notizia totalmente falsa e che tu dovresti smentire. E’ certo che tutto ciò ti fa immensamente soffrire. Ma la sofferenza maggiore per te credo che sia quella derivante dalla lettura che ancor oggi viene fatta nei siti Internet, in cui sei descritto come “ il prete rimosso perché ha l’amante”. Provo ad immaginarti quando vai per le strade di un paese non tuo e la gente ti fissa, bisbiglia e tu riesci a captare pezzi di frasi riferite a te: “è proprio lui….. è il prete sessantenne che si è innamorato di una ragazzina.” E’ fastidioso sentirsi additato e ancora più fastidioso sentire tutti quegli sguardi malevoli su di te. E’ questa sicuramente per te è un’umiliazione insopportabile. Sul tema dell’umiliazione vorrei dilungarmi, per far comprendere ai lettori il “travaglio” della tua anima. Se la diffamazione da te subita è veleno, l’umiliazione è più brutale, è diretta, più efficace. Quando sei stato diffamato, infatti, tu ti potevi muovere con una certa facilità , l’umiliazione, invece, essendo un attacco diretto, frontale, ti ha lasciato paralizzato. Uscire pulito da un’umiliazione è sempre difficile.. Caro don Salvatore, per te è stato costruito, in diversi momenti quasi “liturgici”, “ programmati”, liberamente scelti, un vero “rito di umiliazione” . Prendo tale espressione con i diversi significati che desumo dalle ricerche dall’ antropologia che vanno da un semplice atto di richiamo rivolto al destinatario al fatto di sfidarlo oppure di rifiutarlo; dal suo riconoscimento come membro di una comunità e dalla funzione di affermare un rapporto di sottomissione a quella di segnarne la cessazione definitiva. Quel che si vuole ottenere con il rito dell’umiliazione è la degradazione e, per mezzo di esso, la sottomissione dell’individuo. Ogni rito di umiliazione ha in sé il “ vituperio”, cioè il volere procurare infamia, disonore, vergogna, ignominia. Chi non è completamente digiuno delle “res gestae” e, quindi, della Storia, ricorda tanti riti di umiliazione ad iniziare dall’umiliazione della cosiddetta “Pietra del vituperio”, che ci riporta a tempi molto lontani. Nell’antica Roma, infatti, una delle Leggi delle XII tavole autorizzava i creditori non soddisfatti a uccidere o ridurre in schiavitù il debitore moroso. Giulio Cesare sostituì questa Legge introducendo un nuovo tipo di pena condannando i debitori insolventi alla ”Pietra del vituperio”. I debitori insolventi subivano come pena una spietata pubblica esecuzione che, se non toglieva loro fisicamente la vita, annientava ogni dignità personale. Venivano condotti nel Campidoglio e, esposti al pubblico ludibrio denudati dalla cintola in giù e obbligati a cedere i loro beni, stando seduti a chiappe nude su una pietra. Seduti sulla pietra dovevano gridare ad alta voce “ cedo bona o cedo bonis” (svendo tutti i miei beni) e per tre volte dovevano alzarsi e violentemente sedercisi di nuovo. Nel Medioevo il condannato veniva appeso per le braccia con addosso solo la camicia e lasciato cadere per tre volte facendogli battere il sedere sulla “pietra del vituperio”. Si voleva raggiungere lo scopo di dissuadere il dalla reiterazione di un fatto, ma anche di informare i cittadini per proteggerli da quella persona. Perciò era necessario che la punizione avvenisse in un luogo simbolico, altamente evocativo e molto frequentato, così che un alto numero di spettatori garantisse la massima pubblicità e un elevato effetto frustrante. I convenuti, infatti, con il loro ridere e berciare erano parte integrante della pena stessa. Per fortuna non siamo più ai tempi della pietra del vituperio. I riti dell’umiliazione però non tendono a scomparire. Essi non sono più plateali ma hanno sempre come loro strumento il vituperio. Abbi , per qualche tempo ancora pazienza. Nella teologia cattolica, tu lo sai meglio di me, la pazienza è la virtù che controlla l’angoscia, la depressione, l’amarezza provocata da inconvenienti e rafforza la volontà di operare il bene. Il popolo di Dio ti aspetta: quello, sì, che crede in te.