di ANDREA FILLORAMO
Chi conosce bene il papa Bergoglio sa che egli è un grande “decisionista”, così come, da arcivescovo, lo era a Buenos Aires. Egli, oggi da papa, ieri da arcivescovo, fa tutto da solo, anche se ascolta, si fa aggiornare sui problemi, studia carte e documenti e poi, in silenzio, decide. Bergoglio governa come fosse un “superiore gesuita”, perché nella “Compagnia di Gesù” non esistono regole di maggioranza o di minoranza. Il suo obiettivo è quello di riportare la “barca” di Pietro nel porto sicuro del Vangelo, al quale continuamente e con semplicità si richiama. Sa che il suo compito è arduo, tuttavia egli possiede la certezza che il desiderio di una chiesa povera e, quindi, più santa, per effetto di una “nuova evangelizzazione”, fatta di esempi e non solo di parole, possa essere esaudito. Il suo cammino di “rinnovamento” e di “nuova ottica” nella Chiesa passa, però, attraverso l’impegno e l’opera degli altri vescovi, che il vescovo di Roma cerca di coinvolgere, ora con l’invito a “sentire l’odore delle pecore”, ora, dopo aver sentito magari gli ispettori inviati da lui nelle diocesi, col “bastonarli” solennemente con atti definitivi, che possono anche essere la “rimozione” oppure il “trasferimento” in altra sede. Le diocesi in Italia sono tante e tanti i vescovi che si succedono l’uno all’altro, vuoi perché la diocesi è “sede vacante” per il decesso dell’ordinario, vuoi perché il vescovo ha raggiunto l’età della pensione, vuoi, infine, e questo è il tema sul quale voglio soffermarmi, perché trasferito. Il Papa, pur essendo convinto che i vescovi dovrebbero rimanerein una diocesi, perché“sposi di una Chiesa” , “vita natural durante”, è costretto a derogare da questo principio per “particolari” motivi. E’ questo un “problema” molto antico. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori spiegava così la ragione di questa norma antica: “Altrimenti ne scaturirebbero innumerevoli inconvenienti. Innanzitutto perché i vescovi verrebbero a mancare di amore per le loro Chiese, e inoltre quelle stesse Chiese non potrebbero essere rette bene se i vescovi cambiassero spesso”. Già nell’aprile 1999, il cardinale Gantin, all’epoca decano del collegio cardinalizio, pur auspicando un ritorno alla prassi antica che proibiva il trasferimento di un vescovo da una diocesi all’altra, auspicio fatto anche da Ratzinger, allora Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, riteneva che fosse possibile solo in casi “eccezionalissimi”. Ciò potrebbe avvenire, per esempio, quando si rompe il rapporto fiduciario del vescovo con il clero o con il suo popolo. In tal caso, però, non sempre si rompe il rapporto del papa con il vescovo. Papa Francesco, infatti, nel trasferirlo in un’altra diocesi, dimostra di avere ancora fiducia in lui e vuole che diventi, anche se non lo è stato o è stato solo in parte nel passato: “vero pastore, misericordioso, capace di guidare il gregge ma anche di mescolarsi al gregge e di vegliare sul gregge, amante della povertà intesa sia come libertà interiore sia come austerità di vita”. Governare una diocesi, qualunque essa sia, piccola o grande, è certo un’impresa difficile e il vescovo deve possedere, oltre che virtù cristiane anche capacità di "open government" cioè di gestione della diocesi basata su modelli, strumenti e risorse umane che consentono di essere “aperte” e “trasparenti”. Non esagero se dico che non è sufficiente che il vescovo, come del resto il prete, sia “uomo di Dio”, occorre (volendo giocare con le parole) che anche sia “uomo degli uomini”.