di ANDREA FILLORAMO
La “subordinazione” e il timore reverenziale del prete nei confronti del proprio vescovo, sono ”assoggettazioni“, che nasconodal suo stesso“status”, da cui scaturisce un sentimento di riconoscimento nei confronti di chi, con l’ordinazione presbiterale, l’ha reso partecipe del suo sacerdozio, richiedendogli promessa di ubbidienza, non solo a se stesso ma anche ai suoi successori. Da evidenziare che “autorità del vescovo” e “obbedienza” del prete sono concetti da collegare psicologicamente. Il vescovo, infatti, ha bisogno del prete per gestire la sua autorità e il suo servizio pastorale e il preteha bisogno dell’indipendenza, sia quella economica, sia quella psicologica, per sentirsi veramente libero. Per quanto riguarda l’indipendenza economica, dobbiamo dire che essa, almeno in parte, è raggiungibile o è stata raggiunta. Basta tener conto dellarivoluzione, grazie alla revisione del Concordato e dell’8 per mille, introdotto nel sistema fiscale italiano, che ha segnato l’erezione degli “Istituti per il Sostentamento del Clero”. Nel passato non era così. Non esistono, oggi, infatti,data la crisi economica che ci sta soffocando e la disoccupazione alla quale sono condannati molti giovani, al di là di quella del clero, altre categorie di “lavoratori”, che godono dei diritti economici dei sacerdoti, tanto che ad un giovane prete, già subito dopo la sua ordinazione, è assicurato un congruo “stipendio mensile”. I suoi coetanei, anche se laureati e con il dottorato di ricerca – lo sappiamo – per trovare lavoro, devono necessariamente emigrare all’estero. Non esiste in Italia, inoltre, un’altra categoria di lavoratori garantiti dalla perequazione.Nel sistema del sostentamento del clero,infatti,chi prende il massimo riceve solo il doppio di chi prende il minimo.Di ciò i preti possono essere contenti, specialmente se ricordano quando le sperequazioni a motivo dei benefici parrocchiali erano tante; quando cioè, se non accomodanti, rischiavano facilmentedi essere “presi per fame”; quando l’Ufficio catechistico della Curia distribuiva, “ad libitum” e in modo clientelare, le ore di insegnamento di religione spezzandone le cattedre, andando così “contra legem”; quando nel 1974, in occasione del referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio" (legge n. 898/1970, detta anche "Legge Fortuna-Baslini"), i sacerdoti che si erano impegnati a votare NO e non intendevano leggere in chiesa un documento che pubblicizzava il SI, venivano minacciati dai Vicari foranei. Diciamolo pure, con la certezza di non essere smentiti: non è stata solo la sperequazione data dalla distribuzione degli incarichi e delle parrocchie a creare lo “squilibrio“ economico dei preti, non è stata solo l’attribuzione degli “spezzoni” di insegnamento della religione cattolica ma, a mio parere, è stata innanzitutto, e forse ancora è, “la cattiva coscienza” dei preti più intraprendenti, promotori di “voti di scambio”, di amicizie “particolari”, di “concessioni”, di favori piccoli e grandi per sé e per gli amici. Fortunatamente, quindi,nel nuovo sistema,voluto dalla CEI, i sacerdoti sono liberati da tutta una serie di incombenze che, a loro volta, erano, in passato, legate ai benefici e che oggi sarebbero un “laccio”. Questo rende possibile ai preti la concentrazione di tutta l’attenzione sul loro ministero.Manca in molti preti, però, ancoral’indipendenza psicologica, consistente nella lorovera autonomia. E’ assente in loro il senso di sicurezza. Essi, infatti, sono, – a loro dire- all’interno della struttura diocesana, che è il proprio ambito di lavoro, assidui “precari” istituzionali, “tessere” instabili di un mosaico sempre diverso, oggetti e non soggetti di un inesistente o confuso “progetto pastorale” che dia un sensoal loro impegno ministeriale. L’obbedienza, ricordiamo, non esime dal più elementare dovere di discernimento; senza di esso, infatti, l’uomo diventa una macchina e perde in dignità. Ritorno con una certa tristezza a quanto accennato nel mio articolo del 3 marzo, quando riferendomi ancora alla situazione dei preti, obbligati a ubbidire, scrivevo: “Essi sono obbligati a vivere, vita natural durante e fino alla vecchiaia, che temono per la solitudine che li attende, sotto l’ala protettiva del loro vescovo”. Quante email e messaggi ho ricevuto a sostegno di questa semplice osservazione! A tal proposito, cioè in riferimento alla solitudine dei preti anziani, dei quali mi giungono dalla mia città tristi notizie, il gesuita p. Felice Scalia, che conosce molto bene non solo la situazione messinese, in “Presbyteri”, tratta della condizione dei preti anziani ed esprime alcune considerazioni di carattere pastorale, che facciamo nostre. Egli evidenzia come sia “urgente prendere coscienza, soprattutto da parte dei vescovi, della variegata situazione di quei preti che sono ormai fuori del ministero e che, tuttavia, imponendo loro le mani, abbiamo un giorno accolto come fratelli di cui aver cura e con cui camminare”. Si tratta non solo di preti “vecchi” a livello anagrafico, ma anche di coloro che vengono considerati tali perché “disadattati alla comunità, ritenuti non equilibrati, forse per antiche ferite mai rimarginate, per nevrosi degenerate in vere psicosi, o forse perché fin troppo veggenti, fin troppo “disturbatori” di un certo tran tran ecclesiale, e per questo buttati ai margini”. Aggiunge ancora P. Scalia: ”la vecchiaia è un percorso da affrontare a occhi aperti, proprio perché ambiguo, aperto cioè alla grazia o al naufragio. Forse è il momento decisivo della vita (…). Se è vero che una comunità cristiana accompagna l’uomo sempre, fino alle soglie dell’eternità, il far fiorire questo sentore di vita eterna anche nel cuore dei presbiteri, non può essere uno dei compiti della stessa comunità, del vescovo, del presbiterio tutto? … Quale età dell’uomo, se non la vecchiaia, può testimoniare meglio la realtà della ‘beata speranza’, il valore dell’uomo in quanto uomo, il disvalore di ogni efficientismo utilitaristico? Se la vecchiaia fosse solo un’attesa in anticamera sarebbe un errore del Creatore”.