Scegliendo il sacerdozio, non ho scelto la solitudine né tenevo conto di questo rischio

di ANDREA FILLORAMO

Nel “mettere mano” alla “sistematizzazione” e alla “formalizzazione” della seconda parte dell’intervista a don A. G., pubblicata su IMG Press del 16/03/2015, “riproduco” parte di quanto allora messo in premessa. Ciò per garantire ancora una volta, così come mi è stato richiesto, la privacy del prete e per rispettare la soggettività dei suoi giudizi e della sua esperienza.
“ …….. A lui, al quale, data le confidenze concessemi, ho assicurato il totale rispetto della sua “ privacy” e del suo anonimato, va il mio ringraziamento per la fiducia accordatami. E’ certo e deve essere chiaro per tutti, che lo “spaccato” di un singolo prete, come appare nell’intervista, non deve indurre a pensare che tutti gli appartenenti al clero la pensino o agiscano alla stessa maniera, ma, fatta salva la singolarità della testimonianza, quel prete ci aiuta ad entrare nell’”esistenzialità” del suo gruppo di appartenenza. Dall’intervista molto lunga e articolata, pubblico soltanto le domande e le risposte, formalmente da me rivisitate o messe in bella forma e dallo stesso approvate……..”.

Sono molti i motivi che inducono stanchezza nella quotidianità del sacerdote. A tuo parere e, tenendo ben presente la tua esperienza, quale è la prima sfida che ogni prete deve sostenere?
La prima sfida è quella della solitudine psicologica, universalmente riconosciuta come la principale causa di depressione.

Tu hai sofferto o soffri questo tipo solitudine, cioè in te, anche se vivi con gli altri e per gli altri, è subentrata quella condizione psicologica, data dalla percezione della mancanza di significativi rapporti interpersonali?

La solitudine, che ancora per fortuna non mi ha portato alla depressione, a volte mi fa molto soffrire. Essa ha avuto inizio dopo la morte di mia madre. Proprio allora ho percepito la paura dell’ abbandono, il timore di rimanere solo, senza nessuno che potesse prendersi cura di me. Il pensiero più profondo, che talvolta ancora mi assale, è rappresentato dall’estrema convinzione che rischio di passare la vita in totale solitudine e che, da vecchio – e non ci vuole molto tempo – il mio vescovo, dopo una vita di impegno ministeriale, svolto in diverse parrocchie e con grande disponibilità, mi toglierà ogni incarico e mi “ costringerà” a vivere nell’abbandono totale, come è avvenuto per altri preti. Da qualche tempo questa convinzione si traduce e si manifesta in quasi tutte le relazioni affettive, esasperando le manifestazioni emotive più semplici. Mi sento come se fossi incastrato in una trappola dalla quale non esiste via d’uscita. Non mi consola il fatto che tanti altri preti vivano come me. Credo che questa non sia la volontà di Dio.

C’è un senso in cui la solitudine è un dato ineludibile dell’esistenza umana che non può mai uscire dal suo mondo e dal suo modo di percepire e vedere le cose; questa situazione, che la filosofia chiama “solipsismo”, sottolinea l’invalicabilità della coscienza personale. Capisco che non è questa la solitudine alla quale tu fai riferimento, ma è la solitudine “istituzionale”, data dal tuo “ status” di prete. Ma ogni tipo di solitudine in realtà, è un area da “addomesticare”. Lo scriveva Jean-Michel Quinodoz in “La solitudine addomesticata. L’angoscia di separazione in psicoanalisi” 1992. Per combattere la solitudine bisogna imparare ad apprezzarla: è il modo migliore per imparare a conoscersi e a capire cosa davvero si desidera. La solitudine non è soltanto quella del prete ma è il rischio di tutti. Il prete, vivendo in una parrocchia, in una comunità, a mio parere, corre meno rischi di un laico.
La mia esperienza e la conoscenza di ciò che avviene nella mia diocesi mi porta a dire che la solitudine dei preti, quella che tu chiami istituzionale, è un retaggio di lunghissimo respiro, una storia che si è costruita nei tempo. La stile delle comunità cristiane non si reinventa facilmente e il prete non è chiamato a passare da “monaco solitario”, a membro di un monastero di preti, che sarebbe l’ospizio. La solitudine del prete, almeno nella mia diocesi, è sicuramente quella di tipo “istituzionale”. Ciò mi convince a pensare che ogni prete, prima o dopo, sarà costretto a passare dalla paura dell’abbandono alla constatazione e alla presa di coscienza che è stato “abbandonato”.

Spiegati meglio.

Diventare prete è stata una mia scelta. Tu puoi pensare, quindi, che all’atto della mia ordinazione, io sapevo a che cosa sarei andato incontro; ma non è così anzi…. Scegliendo il sacerdozio, non ho scelto la solitudine né tenevo conto di questo rischio. Ho riflettuto abbastanza su quanto ti dirò. All’atto della mia ordinazione sapevo che il “mane solus”, in alcuni momenti della mia giornata era quasi un positivo invito ascetico. Sapevo il significato del detto evangelico: “ essere nel mondo ma non del mondo”. Quante volte, allora, guardando il mio parroco molto vecchio, felice con i suoi fedeli; pensavo che anch’io, diventato anziano, sarei stato circondato dallo stesso affetto. Ma probabilmente per me non sarà così. Ma perché? perché non ho ubbidito mai “perinde ac cadaver”, non sono un “leccapiedi”, non sono facilmente addomesticabile da chi presume di avere il potere di condannarmi, ad libitum, non solo alla solitudine ma anche all’isolamento; privarmi, cioè, dei rapporti con il prossimo. Egli pensa che una volta che io raggiungerò una certa età, potrà buttarmi nella pattumiera come si fa con un limone che non ha più succo. Ciò mi fa tanta paura, talvolta anche angoscia.

Mi stai quindi dicendo che l’assenza della comunione del vescovo con il presbiterio è causa dell’isolamento e della forzosa solitudine dei preti.
Sicuramente è così. L’atteggiamento di chi dovrebbe essere padre, fratello e amico crea sofferenza e spesso isolamento. E’ triste che i preti vedano nel proprio vescovo soltanto il “ datore di lavoro” , che non comprende di aver bisogno dell’amore dei propri sacerdoti, senza dei quali potrebbe fare quasi nulla per la crescita del popolo nella fede e nell’amore di Dio. E’indubbio che papa Francesco dà un chiaro esempio ai vescovi di come si esercita il servizio episcopale.

Certamente non è facile per un vescovo imitare il Papa…
A mio parere i più grandi “nemici” o “ osteggiatori” di Papa Francesco, siano proprio molti vescovi, e primo fra tutti il mio vescovo, educato, cresciuto, e poi promosso e mantenuto in servizio episcopale da chi, nella Chiesa, si muove in direzione opposta al Papa. Probabilmente egli vorrebbe essere “come il papa”, essere amato come lui, essere ascoltato, ma gli manca la statura, il carisma e non riesce a capire quanto, in questa intervista, abbiamo detto; cioè che i preti vogliono essere amati.

Mi dispiace vedere te e i tuoi confratelli distanti dal vostro vescovo e che tu, da quel che dici, non coltivi la speranza di comunione. Dove non c’è comunione, ci sono tagli, ferite, laceranti asprezze senza che i problemi vengano affrontati e risolti. Ben venga, quindi, da parte di chiunque, un tentativo di dialogo aperto e franco.
Forse non ti sei reso conto che ciò è impossibile. Se fosse possibile io sarei il primo a dialogare con quello che riconosco come il mio vescovo. Più volte, durante questa intervista, ho richiamato l’esigenza della privacy e dell’anonimato e non poteva essere diversamente per le immancabili ritorsioni che da quella parte potrebbero arrivare. E’ una questione di mancanza di libertà.

La libertà: è questo il concetto sul quale dovremmo soffermarci. So chiaramente che la libertà non si può pensare senza un minimo di condizioni di fatto che la rendano possibile, ma la libertà l’intendo come capacità di trascendere la propria condizione, di prendere distanza da essa, di riorientarla sempre e daccapo. In definitiva è libertà come potenza di comparare , di ponderare e di giudicare, al di là di quello che gli altri pretendono da te. Perdonami! Ma spero che tu possa ancora gustare il senso più profondo di questa libertà. E’ preferibile la solitudine scelta in nome della libertà, che quella subita negando la libertà.
Dici bene! Ma quando c’è la prepotenza ammantata di sacralità, anzi che odora di “ sacro crisma”, la libertà di chi la subisce se ne va molto spesso a farsi strabenedire.
Occorre, in tal caso, “desacralizzare” la prepotenza, considerarla quella che veramente è, cioè una tendenza a imporsi sugli altri con la forza di un potere, che tende sempre a sopraffarti. L’unica strategia da utilizzare non può essere il dialogo ma la competizione dialettica. Utilizzala con il tuo vescovo e vedrai che non morirai di solitudine.