di ANDREA FILLORAMO
A conclusione dell’intervista da me fatta al sacerdote don A.G., sulle cui posizioni e sul cui stile di vita non mi sono permesso di esprimere alcun giudizio per non rischiare, oltretutto, di dare un significato moralistico a scelte appartenenti alla sua inviolabile sfera personale, ho cercato di fare una sintesi di quella che ritengo sia stata soltanto una mia esperienza di prudente “riaccostamento” al suo mondo, il mondo dei preti, che è ai più sconosciuto, sul quale egli mi ha gentilmente concesso di puntare la mia attenzione. Nel fare l’intervista, ho ritenuto, a torto o a ragione, che la “realtà” di quel singolo prete, fosse ampiamente generalizzabile a tanti sacerdoti, che, ricevendo l’ordinazione presbiterale non godono dell’ immunità delle “stanchezze” e delle “debolezze” propri del genere umano. Ero consapevole che tali stanchezze e debolezze, come succede per tutte le altre categorie che esercitano determinate professioni, possono condurre chi esercita il ministero sacerdotale al cosiddetto “burnout” (termine inglese che significa bruciarsi). Almeno questo sostiene in un articolo il gesuita Giandomenico Mucci, in La Civiltà Cattolica 2007 III 473-479, Quaderno 3774 (15 settembre 2007), intitolato, appunto “Il burnout tra i preti”. Il burnout è “l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere.” Ne consegue che, se non opportunamente trattati, questi soggetti cominciano a sviluppare un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica dovuta alla mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato, In tali condizioni può anche succedere che queste persone si facciano un carico eccessivo delle problematiche delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. Sappiamo che il “ bournout” comporta esaurimento emotivo, depersonalizzazione, un atteggiamento spesso improntato al cinismo e un sentimento di ridotta realizzazione personale. Il “burnout” colpisce non solo gli infermieri, i medici, gli assistenti sociali, cioè tutte le categorie sociali che svolgono mansioni di aiuto, ma può colpire anche il prete che, dopo aver dato per anni la testimonianza di una totale dedizione al prossimo, a un certo punto si sente senza energie, distaccato da coloro che poco prima ancora aiutava e che non riesce più ad aiutare, Tale sindrome è stata chiamata «sindrome del buon samaritano deluso». Quali sono le ragioni di queste crisi? E’ certo che le crisi, sia quelle che hanno come esito l’abbandono del sacerdozio sia quelle che hanno esiti diversi, non possono essere uniformemente spiegate tutte con il metro tradizionale della fragilità umana. È necessario riflettere bene, per prevenirle e curarle, anche sulla modificazione di elementi e comportamenti che appartengono all’istituzione ecclesiastica. Una causa determinante del burnout dei preti è, per esempio, il loro rapporto, talvolta problematico, col vescovo. I preti in crisi di rapporto on il vescovo si interrogano sul significato del loro ruolo sempre più incerto, e privo dell’antico potere, nella società attuale. Tra le cause non secondarie di burnout c’è, infatti, la sensazione del disinteresse del presbiterio e dei fedeli, la sofferenza cioè dell’incomprensione e dell’ isolamento che non raramente si configura come incoerenza percepita, nel presbiterio e nei fedeli, tra i valori proclamati come prioritari e la prassi della vita. Se, poi, vi è una mancanza di cura, di preoccupazione, un intervento istituzionale, un trasferimento in altra sede o ufficio non gradito da parte del vescovo, la sindrome del burnout del prete è certamente sicura. Ho la percezione che molti sono i sacerdoti che soffrono silenziosamente di questa sindrome che certamente non li rende felici e efficienti nel loro lavoro ministeriale.