di ANDREA FILLORAMO
Rimaniamo perplessi, anzi sbalorditi, per le notizie che, in questi ultimi giorni, provengono dalla Stampa e dalla Rete, riguardanti Mons. Francesco Miccichè, già vescovo ausiliare di Messina e poi vescovo di Trapani, rimosso da Papa Benedetto XVI. La speranza di quelli da me accostati che giurano sulla sua onestà e sulla trasparenza dei suoi atti, è che esse vengano smentite e che gli venga restituita l’onorabilità che, a loro parere, gli è stata “forzosamente” tolta. Ovviamente è compito della Magistratura indagare sulle accuse amministrative e morali che gli sono piovute addosso. A noi restano da fare alcune considerazioni generiche, che prendono spunto, sì, dai presunti fatti a lui attribuiti, ma che ci aiutino a riflettere sulla figura del vescovo che ad un tempo è pastore di anime ma anche amministratore dei beni della sua diocesi. Su quest’ultimo punto, sarebbe necessario dilungarci. Ci soffermiamo, però, su alcuni accenni: il presupposto fondamentale, da cui partiamo, è che tocca al Vescovo il compito di amministrare la diocesi. Egli ne è il responsabile e, in quanto tale, egli deve accertarsi che la diocesi sia gestita in modo trasparente e corretto, nel rispetto della legalità e dando una adeguata immagine di Chiesa. I beni economici infatti sono necessari alla vita della Chiesa, ma vanno utilizzati con sobrietà e in modo proporzionato al perseguimento dei fini specifici di un ente ecclesiastico. Un problema di un certo rilievo per la diocesi è quello dell’amministrazione del patrimonio sia immobiliare, che mobiliare. Per quanto riguarda il patrimonio immobiliare occorre tenere presenti le particolari caratteristiche dell’ente diocesi e valutare quale patrimonio sia più adatto, oltre a quello istituzionale, per offrire un reddito e non creare impatti negativi sulla opinione pubblica. Da rammentare che l’opinione pubblica non tollera alcun tipo di speculazione e condanna quella edilizia diretta e indiretta, se viene fatta da un uomo di Chiesa. Non tollera, inoltre che la facciano altri enti, anche se religiosi, che attraverso transazioni paradossali e non condivise cancellazioni di convenzioni, si impadroniscono di beni della diocesi che avevano per esplicita volontà di vescovi precedenti ben precise destinazioni d’uso. Ciò è avvenuto, per esempio, a Messina con la Casa del Clero, pensata e voluta nel 1959 da Mons. Angelo Pajno. Circa il patrimonio mobiliare, sarà cura di chi amministra una diocesi di investire il denaro più a breve o lungo termine, secondo le esigenze di cassa, ma sempre tenendo presente la natura e la finalità dell’istituzione ecclesiastica ed evitando ogni tipo di investimento che possa in qualunque modo mettere a rischio il capitale non proprio che si amministra. Dal punto di vista civile sappiamo che il legale rappresentante della diocesi è il vescovo. Egli ha il compito di usare i beni secondo le finalità dell’ente ecclesiastico e considerare suo dovere primario il rispetto della correttezza e della legalità, e, quindi anche delle singole leggi dello Stato, perché la diocesi possa essere un modello per i parroci nel modo di gestire le parrocchie e possa essere anche un modello per i fedeli, che vanno educati a considerare il rispetto della legge e il pagamento delle tasse come un elemento qualificante del loro essere cristiani nel mondo. Da ricordare ancora che il vescovo amministra parte delle risorse dello Stato proveniente dalla fiscalità generale. Mi riferisco al “pozzo senza fondo” dell’8 per mille in parte destinato al sostentamento del clero. Egli, quindi, risponde come ogni altro funzionario dello Stato delle risorse affidategli. Un’ultima considerazione. Il vescovo, anche se amministra un’ingente quantità di denaro, non deve farsi attrarre da esso ma vivere dignitosamente con quanto lo Stato gli dà; non accetti regalie o eredità e, se religioso, continui a osservare il voto di povertà. Ritengo che oggi non sono da ritenere scandalosi, dati i tempi in cui viviamo, alcuni fatti attribuiti ai vescovi; anche loro mostrano le loro “debolezze“ umane, un tempo tenute nascoste. Nessuno, infatti, si meraviglia più di tanto se sente di un vescovo “intimamente” vicino a un ricco signore con cui si incontra a tarda sera. Non arreca più meraviglia il fatto che il vescovo convinca quel ricco signore gravemente ammalato ad annullare il testamento olografo fatto precedentemente e a farsi nominare con atto pubblico notarile erede universale di un ingente patrimonio. Al vescovo interessa soltanto che nessuno sappia, che il fatto venga tenuto nascosto. Ma è proprio così? E se quel ricco signore, prima di morire, pentito, ha lasciato qualcosa di scritto? O Dio mio, che disastro! A questo punto al vescovo non resta che difendersi dall’invadenza della stampa, per non finire come mons. Miccichè su tutti i giornali e sulla Rete. Ho fatto un esempio nato dalla mia fantasia? Non lo so. In ogni caso, se vero, al vescovo non resterebbe che presentare le sue dimissioni al papa Francesco che è lieto di accoglierle.