Andrea Filloramo, leggo in un tuo articolo del 29/08/2015, dal titolo: “Tempo senza età”: “I preti anziani, oltre tutto e, per anziani intendo quelli ordinati fino agli anni ’70, a differenza dei preti giovani, (…………..) hanno sofferto, nel seminario, per dodici anni e più, durante la fanciullezza, l’adolescenza e lo stato giovanile, una totale “segregazione” (…………). E così hanno affinato il loro animo a qualsiasi sacrificio e non aspettando promozioni, attendono la loro pensione che garantisce la tranquillità economica, in continuità con il loro sevizio di preti. Vogliamo, in questa intervista approfondire questo discorso?
Certamente! Se mi si consente intendo trattare questo argomento da un punto di vista psicologico e non può essere altrimenti.
Cominciamo a parlare del seminario di quegli anni.
Premetto che allora il seminario si divideva in seminario minore che corrispondeva alle classi ginnasiali e seminario maggiore che accoglieva i seminaristi liceali e gli studenti di teologia. Per fortuna, dopo quegli anni, il seminario minore è stato abolito. Per comprendere cos’era il seminario negli anni 50/60/70 bisogna necessariamente risalire a collegio dei gesuiti fermo alla cultura del ‘600, periodo in cui il collegio erastato istituito. Esso era basato sulla “Ratio studiorum”, elaborata dai primi padri della Compagnia di Gesù, la quale prevedeva la centralità della disciplina accanto all’educazione intellettuale e fisica, la divisione degli studenti in classi e, infine, un sistema di esame e di verifiche periodiche.Due erano le regole ferree: l’obbedienza “perinde ac cadaver” (come se fossi un cadavere) el’abnegazione di se stessi, che rasentava la negazione. Garante di tutto questo era la punizione, impiegata senza alcun limite e di regola in pubblico. Questo era il protocollo al quale per diversi secoli anche il seminario si era attenuto. Il seminario, quindi, collegio vescovile, dove venivano “internati” i candidati al sacerdozio, a partire dalla prima media, “segregava”, togliendoli dal mondo per dodici o tredici anni, i seminaristi, presumendo di “formarli” come preti. Oggi tutti riteniamo che è un errore rendere un bambino, un adolescente e un giovane un povero derelittoun“eremos”; “eremos” è colui cui manca qualcosa di fondamentale e ne è devastato.
Si trattava, perciò, di una segregazione?
Proprio così. Chiunque, dal primo momento del suo ingresso in seminario con grande stupore capiva di essere destinato alla segregazione assoluta; per un anno intero, infatti, non si tornava, anzi non si poteva tornare in famiglia. A un undicenne, non restava altro, perciò, che votarsi a una beata incoscienza, tra gioco, studio e abbondanti pratiche di pietà. Dei primi giorni di seminario ricorderà sempre quel senso profondo di solitudine, dovuto a quei lunghissimi periodi di assoluto silenzio coatto (su dodici ore ben più di dieci ore erano destinate al totale silenzio) e la solitudine, considerata la strada necessaria da seguire per giungere alla perfezione, lo accompagnerà per tutto il periodo della formazione seminaristica.“Intra totus, mane solus, exi alius” si diceva, e questa era la pedagogia seguita da secoli dalla chiesa nell’educazione dei seminaristi.
Non era facile questa accettazione?
Non era facile per chi era innamorato della vita, disponibile, aperto, allegro, bisognoso di avere sempre gente intorno che lo stesse ad ascoltare e a prenderlo in considerazione, cosa normale per un adolescente, stare per la maggior parte del tempo, senza poter proferire alcuna parola. I superiori dicevano che si trattava di un atto di grande virtù ma si trattava, invece, di un atto di una crudeltà disumana; infatti, quando suonava la campanella per avvertire che iniziava la ricreazione, si sentiva in tutto il seminario, un grido collettivo e disumano come di bestie in agonia.
E dire che la Chiesa avrebbe dovuto sapere che l’essere umano nel momento in cui si sente solo in un universo difficile, abbandonato è destinato all’alienazione…
L’avrebbe dovuto imparare anche dall’abbandono di Cristo e dagli infelici che Cristo proteggeva; l’avrebbe dovuto sperimentare quando era minoranza perseguitata; apprendere quando contemplò l’estenuarsi del mondo pagano. Non l’apprendeva certamente dalla psicologia e tanto meno della psicanalisi ritenuta “inaccettabile”.
Ma il ragazzo, a dodici, sedici o venti anni non era consapevole di questa situazione?
Nessuno allora pensava di appartenere a una società, quella del seminario, disorientata e confusa, troppo spesso sciatta, che non lasciava luogo alle complicazioni adolescenziali dell’io, rigettate come inutili, superflue fantasie.
In ogni seminarista era, quindi, assai forte il senso di un’intensa solitudine?
Una solitudine vissuta come una ferita dell’io, per laquale si cercava, senza trovarli, i rimedi che potessero, se non guarire, per lo meno lenire la sofferenza che comportava. Per tali motivi ogni seminarista percepiva il grande timore di essere emarginato e di rimanere sempre solo anche quando si trovava con tutti gli altri.
Quali erano le conseguenze psicologiche di questo atteggiamento?
Erano tante e molto gravi. Ne derivava un bisogno di autolimitazione dei potenziali per evitare l’invidia degli amici. Il bisogno di adeguarsi agli altri per sentirsi accettato e avere delle compagnie sicure, era più impellente del desiderio di autorealizzazione. In tale situazione, quindi, non si riusciva a formulare nessun desiderio, a esprimerlo in modo sintetico; il timore di differenziarsi dagli altri, dalla massa, produceva una grande confusione. Talvolta, invece, il seminarista faceva degli sforzi disumani per raggiungere ed eguagliare gli altri, oppure rinunciava, si isolava, peggiorava sempre più se stesso per tiranneggiare o colpevolizzare il prossimo. Si proteggeva dalla sua inferiorità, strutturando meccanismi di difesa autodistruttivi e distruttivi, autolimitanti e limitanti, arroganti e svalutanti.
Leggevo non so dove che il bambino come l’adolescente ha bisogno sempre di coccole, ma da quel che tu mi dici in seminario si sognavano le coccole…
Proprio cosi, l’adolescente, come il bambino, ha sempre bisogno di qualcuno che gli faccia le coccole. L’adulto si fa le coccole da solo e non ha bisogno di nessuno. Il genitore e chi lo sostituisce nell’educazione, è l’unico capace di fare le coccole. Sulle coccole avute si gioca tutta la sua vita, il suo benessere, il suo rapporto con gli altri, la sua felicità. Paure, fobie, panico, ansia, depressione sono tutte manifestazioni di una personalità infantile non evoluta, sempre alla ricerca di amore, di sicurezza, di coccole
Tutto questo indiscutibilmente, quindi, ha causato un vulnus sentito anche quando si è diventati adulti?
Il seminarista, una volta diventato adulto, ha rischiato di arrendersi alla vita fatta d’insuccessi, di paure e colpe irrazionali, di sentirsi schiacciato dall’adeguamento ai limiti ambientali e per timore della solitudine, non ha osato più avere desideri ben definiti. Se, poi, ha avuto la forza o il coraggio di rivolgersi a un analista, ha potuto notare come la paura della solitudine, quando era adolescente, era sempre accompagnata da un profondo senso di colpa; ogni qualvolta si sentiva di possedere un "quid" che lo differenziava dagli altri, temeva di perderne l’affetto. Talvolta ricorreva all’autopunizione con l’autolimitazione delle capacità e preferiva essere circondato dalla compassione piuttosto che dall’invidia.
I superiori, quindi, imponevano questo modo di essere e forse non si rendevano conto delle carenze di un tipo siffatto di educazione?
Proprio così, anche loro erano i prodotti di tale cultura. Vogliamo, per esempio, parlare di uno di loro? Parliamo del rettore. Il Rettore era un uomo freddo, apparentemente cinico, irraggiungibile, convinto che i seminaristi andavano educati senza un suo coinvolgimento emotivo. Oggi un rettore o un superiore del genere sarebbe inconcepibile, dati i tempi che sonofortunatamente cambiati. Diverso è oggi il rapporto superiore-inferiore. Molta strada hanno fatto le scienze psicopedagogiche e anche la Chiesa si è adeguata ad esse. Oggi sicuramente un superiore siffatto, dimentico o represso nei propri sentimenti, non può esserci in un luogo educativo; invece quel rettore si trovava là, rintanato sempre nella sua stanza, dalla quale usciva solo per recarsi in Curia, dove svolgeva una funzione molto importante, e di sera per andare al refettorio a cenare oppure di notte, quando talvolta ispezionava le camerate.
Cioè?
Si, proprio così a ispezionare le camerate. Nelle ore notturne, talvolta egli appariva come un fantasma, quasi una presenza incorporea: mancavano soltanto il sudario, una certa luminescenza e il rumore di catene; le altre circostanze delle apparizioni del fantasma c’erano tutte ed erano caratterizzate dagli elementi ricorrenti, quali oltre l’ora notturna, i luoghi lugubri e isolati, il passo leggero e incontrollabile.
Quale era, dunque, il compito che un rettore del seminario aveva o si proponeva?
Quel rettore considerava suo compito soltanto quello di erogare sanzioni e castighi. “Ti porto dal Rettore”, minacciavano i prefetti, cioè gli assistenti che erano anch’essi dei seminaristi ma più avanti negli anni e negli studi e la paura s’impadroniva dei quei poveri ragazzi.
Quale funzione svolgeva la famiglia?
Una “criticità” della vita seminaristica era, indubbiamente, come già accennato,l’abbandono della famiglia. Nell’andare in seminario, infatti, il seminarista lasciava il padre, la madre, i fratelli. Si tornava a casa solo un mese l’anno. A Natale e a Pasqua senza papà e mamma. Quante volte, in seguito, sentiva ripetere l’espressione evangelica:”Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me”! E, così, s’impegnava ad amare Gesù più dei genitori e dei fratelli, ma non ci riusciva e un senso di colpa lo prendeva totalmente. Quante volte sentiva tanta nostalgia che lo faceva piangere di sera, sotto le coperte: pensava ai fratellini, che gli mancavano tanto! Nessuno, però, allora, pensava ai problemi psicologici subiti dai seminaristi, causati dall’abbandono della famiglia. Essi vivevano questa perdita come una perdita definitiva, come un lutto, causato da se stessi, e, quindi, con forti sentimenti di colpa: “Sono stato proprio io –pensava ogni seminarista – a voler lasciare la famiglia per andare in seminario”. La colpa, però era di altri che non capivano o non volevano capire che i ragazzi non hanno bisogno dei genitori solo perché questi li accudiscano nelle loro necessità reali.
I ragazzi hanno bisogno dei genitori che vadano ad attivare, a mettere in risonanza le immagini interne: a costellare, cioè, gli archetipi materno e paterno corrispondenti.
Proprio così. Tali archetipi sono in loro e sono pronti a scattare in rapporto alla realtà che i ragazzi incontrano, a cui poi dovrà corrispondere il modello archetipico di maschile e femminile che vanno a costituire la base delle future relazioni sociali e affettive.Quando un bambino o un ragazzo è costretto a rinunciare ai genitori, non rinuncia, perciò, solo alle persone fisicamente percepibili, ma anche all’attivazione dell’immagine interna corrispondente a quelle persone.
Gravi, quindi, sono le conseguenze per i minori ai quali si strappa la famiglia?
Certamente. Se il minore mette in atto meccanismi difensivi meno distruttivi per la sua personalità, il rifiuto-perdita-allontanamento di un genitore è percepito come abbandono da parte di questo, colpevole di non essere sufficientemente forte da non farsi escludere. All’introiezione di un vissuto di abbandono o allontanamento, inoltre, corrisponde l’ansia di essere trascurato; s’innesca, cioè, una catena in cui si possono stabilire rapporti affettivamente importanti perché il minore si convince che poi sarà comunque lasciato a se stesso. Per il minore non è possibile crescere bene, avendo dentro se stesso l’immagine materna o paterna eliminata o negata oppure allontanata o sostituita.Per non essere sopraffatto dall’angoscia, quindi, il minore utilizza meccanismi difensivi di scissione e negazione da cui derivano poi le strutture psicotiche. Da tali vissuti possono derivare le strutture depressive; dal senso di abbandono derivano sicuramente stati di angoscia; dai sentimenti d’impotenza di fronte al desiderio negato d’incontro e di confidenza impossibile con i genitori derivano le tendenze a regredire ad atteggiamenti di dipendenza infantile. Il trauma di quell’esperienza, è destinato a ripetersi ogni qualvolta penso di trovarmi in una condizione di dipendenza servile, producendo una conseguenza di grande portata, che è quella di rianimare uno spirito d’indipendenza e una fierezza che non verrà mai meno.
I preti anziani, quindi, che hanno vissuto queste esperienze nel seminario, tu sostieni, nell’articolo citato, che hanno affinato il loro animo a qualsiasi sacrificio e questo li rende diversi dai preti giovani?
Certamente ma ciò se sono riusciti a non nascondere a se stessi il passato, a riconquistarlo, senza temere di metterlo nella sua giusta posizione, di non farlo sporgere sul futuro. Il semiologo Tzvetan Todorov dice “è quando si smette di nascondere il passato che ci si può liberare della sua influenza”. Ciascuno di noi, però, deve pensare che quando il passato, sta incollato al presente non passa, può tornare, però, ogni qualvolta che un trauma lo rimette in gioco. Con il passato occorre fare i conti, cimentarsi, affrontando i dolori, che servono a crescere, che, come dicevano i greci, sono insegnamenti; occorre, inoltre, superare il tentativo folle eppure così diffuso nel nostro tempo, di risolvere i conflitti che lacerano ogni uomo, ricorrendo a una sorta di anestesia della coscienza.