di Ettore Sentimentale
Come annunciato da lui stesso durante le messe del 6 e 7 agosto u.s., il prossimo 22 c.m., p. Antonino Caizzone, parroco della Sacra Famiglia Contesse Cep, lascerà la guida pastorale dopo 49 anni di servizio ininterrotto. Per tale occasione vorrei offrire alcuni spunti di rilettura – certamente non esaustivi – del suo ministero presbiterale. È “personale” bussola che potrebbe aiutare anche gli altri, soprattutto preti, ad orientarsi nell’immenso e variegato servizio di p. Antonino. Lo faccio attraverso quattro verbi, dal sapore tipicamente biblico, tenuti in grande considerazione da papa Francesco.
Il primo è “servire”.
P. Antonino ha servito la comunità parrocchiale con molta passione, oserei dire si è appassionato. O meglio la sua passione è stata la sua gente. Lo ha fatto “non per vile interesse, ma di buon animo” (1Pt 5,2). La sua vita è servita a tanti, ha servito il Signore e come Lui è rimasto in mezzo alla gente in perenne atteggiamento di diaconia (Lc 22,27). In questo momento risuonano chiare e illuminanti le parole del canto: ”Offri la vita tua come Maria… e sarai servo di ogni uomo, servo per amore, sacerdote dell’umanità”. Il suo servizio si è svolto sotto una buona stella, quella di Maria: “Guarda la stella, invoca Maria” (S. Bernardo). Questo servizio si è tinto sempre di passione, quella per il gregge di cui parla papa Francesco a tal punto che il pastore non può non “spuzzare” dell’odore delle pecore. Tanta la tensione dialettica nel proporre ai suoi fedeli di “prendere il largo” (Lc 5, 4) facendosi “servi inutili” (Lc 17,10).
Il secondo verbo è “portare”.
Inteso nel senso biblico di condurre e sostenere insieme. La metafora del Signore che “porta gli agnellini sul petto e conduce pian piano le pecore madri” (Is 40,11) è il fondamento teologico e motivazionale di questo aspetto specifico del ministero di p. Antonino. Chi lo conosce sa che questo portare è stato accompagnato molte volte dal dolore: per la fatica del “peso” ma pure per la diffidenza del “carico”. Il “portare” è così divenuto un “supportare”, una condivisione costante delle “infermità dei deboli, senza compiacere se stessi” (Rm 15,1).
Il terzo verbo è “contemplare”.
Qui diviene obbligatorio il riferimento a S. Giovanni Maria Vianney e al beato Paolo VI. Richiamo rispettivamente due passaggi: “Io lo guardo ed egli mi guarda” diceva al curato il contadino Chaffangeon. E la tenera attenzione a Lui da parte del nostro sacerdote, costantemente vissuta nel silenzio della chiesa parrocchiale, gli ha purificato lo sguardo e gli ha insegnato a vedere tutto e tutti con il cuore di Gesù. A completamento dell’aneddoto del curato d’Ars, riporto quanto Paolo VI, alla chiusura del Concilio affermava: “Lo sforzo di fissare in Dio lo sguardo e il cuore, che noi chiamiamo contemplazione, diventa l’atto più alto e più pieno dello spirito…”. Questo particolare, ci permette di dire che tutto il ministero pastorale di p. Antonino ha ricevuto una speciale unificazione e propulsione stando davanti a Lui.
L’ultimo verbo è “amare”.
Il riferimento al discepolo Giovanni è obbligatorio perché questo seguace di Gesù è stato capace più di ogni altro, stando alla scuola del Maestro, di cogliere in tutta la dimensione l’amore folle di Dio per tutti gli uomini. È lui che dice chi è Dio: “Dio è amore; chi dimora nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4,16). Giovanni è cresciuto nella fede percorrendo un cammino difficile, ma sempre accompagnato da Gesù. E oggi, leggendo i suoi scritti, veniamo condotti in un viaggio interiore, sotto lo sguardo amorevole di Gesù. Con la forza della testimonianza vissuta ai piedi della Croce, la violenza gratuita subìta ad opera dell’imperatore romano, la tentazione della disperazione, Giovanni ci consegna il testamento raccolto da Gesù e indirizzato a tutta l’umanità: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15,12). Il parroco della Sacra Famiglia di Contesse Cep è stato ministro amabile e “spregiudicato” di questa parola.
Grazie, p. Antonino.