di ANDREA FILLORAMO
Trasmetto un’email ricevuta il 16 dicembre da un sacerdote della Diocesi di Messina, Lipari e S. Lucia del Mela.
Caro Andrea, te l’ho detto più volte sia quando ci siamo rivisti a Messina, sia per telefono e te lo voglio ancora ripetere: il servizio che tu hai reso ai sacerdoti di questa arcidiocesi è stato molto importante. Di ciò ti dobbiamo ringraziare assieme al giornale che ha accolto i tuoi articoli, che hanno messo in luce il disastro, al quale nessuno di noi preti ha avuto il coraggio di porre rimedio. Tu conoscitore della loro psicologia che li costringe a dire sempre di sì, a ubbidire perché soggiogati dai ricatti, con tatto, intelligenza, li hai aiutato ad aprire gli occhi, a vedere con chiarezza anche quello che non potevano non vedere. Non so che cosa sia avvenuto per costringere il vescovo a dimettersi. Posso dire soltanto che se quel capitolo è stato chiuso è anche merito tuo. Questo merito credo è oggi riconosciuto anche da chi ha ritenuto che tu fossi un intruso nel presbiterio messinese. Approfitto per farti le mie più vive congratulazioni per il tuo libro che ho finito di leggere in questi giorni e gli auguri di Buon Natale, per te, per la tua famiglia e per i tuoi nipotini. XXXXXXXXXX
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C’è chi pensa che il semplice fatto di ricevere qualcosa e di dover ringraziare significhi essere in debito. Bisogna affermare con forza: “Se fate qualcosa per vostro fratello non segnatelo sull’agenda nella speranza che vi restituisca il favore prima o dopo. Lo fate perché volete o perché «riconoscete» quella persona come parte di voi”. Questa è la considerazione che ho fatto nel ricevere da parte di un prete mio amico l’email riportata, in cui non mancano, come in essa si legge, i ringraziamenti per i miei articoli su IMGPress nei quali, come lui stesso dice, ho prestato un sevizio utile alla diocesi nella quale egli è incardinato e che una volta era anche la mia.
Ribadisco ancora, dato che più volte l’ho affermato, che, nello scrivere quegli articoli, ho ascoltato dei preti e ho affrontato per loro alcuni problemi dagli stessi segnalati che riguardavano il loro vescovo o i loro confratelli, problemi sui quali per paura di ritorsioni, era sempre calato illoro silenzio, ma non lo strascico di lagnanze, mormorii, maldicenze e improperi, non confacenti con il loro stato.
Tale situazione, dopo l’ingiusta “staffetta” in una ben nota parrocchia della diocesi per dare collocazione d’onore al Vicario Generale che inopinatamente si era dimesso, stava per aggravarsi, giacché, come scriveva Publio Terenzio Afro (190-185 a.C. 159 a.C.), commediografo di lingua latina:“Non c’è nulla che le male lingue non possano peggiorare”. Scrivendo, ho cercato, senza ergermi a maestro e senza possedere l’arte di manipolare le menti altrui per ingenerare approvazione, di far passare un concetto per me elementare, quello cheanche i preti hanno non solo diritto ma anche il dovere di resistere ad ogni tipo disopruso e di obbligato conformismo. Intendo per conformismo quell’atteggiamento tipico di molti preti, e non solo, che “ignorando o sacrificando la propria libera espressione soggettiva in modo più o meno marcato, si adeguano e si adattano nel comportamento complessivo, sia di idee e di aspetto esteriore che di regole, alla forma espressa dal gruppo di cui fanno parte”. Nei miei scritti, perciò, ho cercato non tanto di convincere ma di far pensareche,essendo il conformismo un cambiamento di comportamenti prevalenti anche quando questi sono in contrasto con il proprio modo di pensare, mai bisogna rinunciaread agire personalmente e ad esercitare liberamente la propria volontà e responsabilità. Quando ci si conforma in risposta a un ordine o a un comando esplicito per ottenere una ricompensa, avere un incarico o un titolo e, nel nostro caso, un canonicato o la nomina di parroco in una parrocchia ricca e importante o una talare paonazza, filettata di rosso, indossata orgogliosamente o spudoratamente da alcuni, il conformismo diventa obbedienza e, quindi, di preti conformisti e obbedienti ce ne sono tanti o meglio ne conosco tanti.
Nei miei articoli ho scritto, inoltre, controil “clericalismo”che costruisce monumenti all’ipocrisia e contro il “moralismo” bigotto e la “doppia morale”, che è un veleno distribuito a piene mani da preti che sicuramente con i loro comportamenti, le loro stancanti omelie, i loro discorsi, allontanano e non giovano alla fede.
Su questi due atteggiamenti, divenuti “costumi”, cadono gli strali anche di papa Francesco, con il quale, quindi, sono in religiosa compagnia.
Sono riuscito nei miei intenti? A dire il vero non lo so né lo pretendo. Per me è importante aver scritto, dopo essere stato interpellato, quel che penso. Sono, infatti, consapevole che queste operazioni siano estremamente difficili, tanto che potrebberodiventare operazioni contro “i mulini al vento”, costruiti dall’ignavia umana e che esse, se non diventano personali e soggettive, sono necessariamente destinate al fallimento, “voci di chi grida nel deserto”.
So soltanto che ho ascoltato quanti si sono rivolti a me e sono tanti: non sono come qualcuno mi ha scritto: “uno sparuto gruppo di preti ribelli, perché non graditi al vescovo per il loro comportamento e che spargono fango sulla diocesi”;essi hanno riconosciuto la loro insufficienza nell’impegnarsi nella demolizione di una “cultura”. Si tratta della “cultura clericale”, che è il sostrato più profondo della loro formazione ricevuta già dai tempi del seminario. Essa abborrisce la laicità della quale molti preti non hanno neppure la minima cognizione; fissano così la loro immaturità umana e la sacrificano sull’altare della sacralità dell’ordine sacro ricevuto.
Non èfacile per lorocomprendere che parlare di laicità, alla quale sempre si sono contrapposti, significa parlare dilibertà per tutti; di rispetto dei diritti di ogni individuo e gruppo, di seguire ciò che detta la coscienza; di praticare, ideologia e religione senza violare i diritti altrui e pretendere di acquisire posizioni di monopolio o di predominio in forza di privilegi.
Certo che è molto difficile per un “chierico” farsi culturalmente “laico”, ma solo in questo consiste la rivoluzione nella Chiesa, proposta dal Papa.Solo questa, a mio parere, è la “metanoia” per la quale deve operare ogni prete, così come opera Papa Bergoglio, Essa non arriva dall’alto ma è una conquista lenta e graduale che avviene nell’intimo e nella coscienza di ciascuno. Ritorno alla situazione messinese. Superato il trauma delle dimissioni del proprio vescovo, improvvise per alcuni ma non per chi sapeva che cosa “covava sotto la cenere”, oggi vedo che i preti messinesi sono più tranquilli, aspettano che il nuovo arcivescovo prenda possesso della diocesi e che restituisca alla diocesi la dignità storica che merita. Credo che non ci sia più spazio per il pessimismo se Mons. Accolla non solo curerà le profonde ferite finanziarie-amministrative della diocesi, tenute fino ad oggi nascoste e, quindi, non trasparenti; “toglierà il velo” sull’eredità Bertolami di cui nessuno più parla; prenderà una chiara posizione di fronte ai preti anziani e ammalati, che aumentano sempre di più, che si sono visti privati della speranza di avere una casa del clero, quella che il munifico arcivescovo Paino, aveva garantito e che l’insana transazione La Piana- Rogazionisti, ha loro “rubato”.
Diano anche “tempo al tempo”. Non può il nuovo arcivescovo, preso possesso della diocesi, che già di per sé, presenta molte difficoltà territoriali, sociali e religiosi, far sorgere improvvisamente il “sol dell’avvenire”. Egli non ha la “bacchetta magica” per tramutare “l’acqua in vino”, ma sicuramente sarà un pastore, disponibile ad ascoltare i suoi preti, che non saranno più costretti a nascondere i loro problemi, non avranno più paura di ritorsioni e parecchi non inviteranno più un “esterno” al presbiterio a scrivere per loro.