di ANDREA FILLORAMO
Rispondo all’email xxxx@tiscali.it il cui mittente, fra l’altro, mi scrive:
“ ……………….Bel regalo che ci ha fatto Papa Francesco, ci ha mandato un arcivescovo che in due discorsi fatti a noi sacerdoti, in cui doveva spiegare la parola di Dio, ci ha insultati, ha usato un linguaggio triviale……. fino anche a chiamarci “bastardi” e accusandoci di cose che non abbiamo fatto…………………………Ho l’impressione che siamo caduti dalla padella nella brace………………………………………………………..”.
Compongo questo “pezzo” con grande difficoltà e imbarazzo accompagnato a meraviglia e tristezza.
In ogni gruppo sociale, formato da molte persone, se in esso sono previste posizioni gerarchiche, “conditio sine qua non” per il raggiungimento dei risultati che consistono nello scopo che si intende raggiungere, è il rispetto reciproco che ci deve essere fra chi ha la responsabilità del comando, da intendere, in un sistema democratico e maggiormente in quello religioso, sempre come servizio e chi attende, dal capo, particolarmente se all’’inizio del suo mandato, l’imput per partecipare al fine comune, senza guardare indietro per non rischiare il “torcicollo”.
Se “partecipare” significa “prendere parte”, “dividersi i compiti”, “collaborare” è necessario che fra le due parti ci sia la conoscenza per sapersi “guardare negli occhi” ed essere certidi poter procedere nel lavoro comune.
Prima di accingersi all’attività, occorre, inoltre, del tempo per giungere alla conoscenza dell’altra parte, intelligenza per vincere gli eventuali pregiudizi, capacità di ascolto per capire quello che viene detto; occorre, infine, buon senso per non tener conto dei pettegolezzi o “voci”,che spesso rovinano i rapporti e il cui ascolto o diffusione impedisce ogni forma o tipo di dialogo.
Ricordiamo che la verità non è quella stagnante e maleodorante nelle “latrine” delle dicerie e dei pettegolezzi, ma èilpunto di arrivo di un processo che, spesso, ci spinge ad un inesausto percorso relazionale, in cui essa possa manifestarsi, così com’è.
Questa mia premessa sembra una pagina di sociologia spicciola o di psicologia sociale, scritta ad arte per “non prendere posizione nelle lagnanze di un prete nei confronti del proprio vescovo insediato da poco tempo”, un “parlare a suocera e un intendere nuora”, un “non voglio entrare nel merito”,un“non ne voglio più sapere”,oppure: “ognuno si gratti la propria rogna” e, quindi: “è affare vostro e soltanto vostro”.
Sicuramente è tutte queste cose e se ne potrebbero aggiungere ancora delle altre, dato che i preti messinesi, fino ad oggi, da quel che mi risulta, anche se sollecitati, non sono stati capaci di superare la frammentazione, prendere delle posizioni comuni, non essere ipocriti o addirittura “lecchini”, non usare scudi, terze persone o maschere e, infine, non temere le ritorsioni, rammentando che Cristo ripete ancora anche a loro: “il vostro parlare sia sì sì, no no”.
Le ragioni della mancata coesione fra il gruppo del presbiterio, che è la risultante delle forze che agiscono sui membri per farli stare bene,possono essere tante e meriterebbero di essere indagate.
Non sfugge il fatto che il gruppo sia solo “canonico”, “istituzionale”, “autoreferente”, dove difficilmente ci si incontra per scaricare le tensioni, dove solo alcuni rappresentano tutti là dove avvengono le decisioni, che spesso non sono accolte da quella che chiamiamo la base.
Tutto ciò può generare invidie, gelosie, rancori, di cui anche i preti non sono immuni, ma che possono avvelenare il clima generale, che potrebbe risultare pesante e togliere il fiato e la voce a quelli più sensibili.
Mi dispiace che ciò avvenga in una diocesi in cui, per gli accadimenti recenti, si è sofferto molto.
Al prete che mi scrive e ha mostrato, almeno a me, la sua “faccia “, dico: “se è vero che il vescovo, usando un linguaggio triviale, ha dettoche i preti di Messina siete addirittura dei «bastardi»: «horribiledictu!», preso atto della mancanza in lui del «bon ton», dimostrate che non lo siete;vi ritiene responsabili del fango buttato addosso al suo predecessore? Se non lo siete, scusatelo perché non sa come sono andate le cose…è stato informato male e si è affidato a chi aveva l’interesse ad informarlo male; egli pensa che sparare sul gruppo, fare il burbero, il severo, sia l’unica strategia per farsi accogliere?, è lui e solo lui il responsabile di quel che fa e dice e nessuno si può permettere di esigere da chi è «compos sui», altre strategie più morbide;Vuol fare il «castigamatti»? Lasciatelo fare…vedete in lui sempre il vostro pastore, che, con il vostro aiuto, sicuramente pima o poi si manifesterà”.
Una confidenza: il venerabileMons. Francesco Fasola, grande arcivescovo di Messina, con il quale mi vanto di aver avuto un ottimo e filiale rapporto, che si è protratto anche durante il suo pensionamento, nel primissimo periodo del suo episcopato a Messina, per le chiacchiere di alcuni monsignori (me lo confidò lui stesso nel 1985 al Sacro Monte di Varallo, che si trova ad un centinaio di chilometri da casa mia), usò toni duri nei confronti di alcuni preti, per poi convincersi che non era quella la strada da percorrere e sempre si è impegnato a santificarsi e a santificare quelli che egli considerava i suoi figli.
Questo ho dichiarato nel processo di canonizzazione.
Il programma del suo impegno pastorale era tutto concentrato nella giaculatoria che sempre ripeteva: “Vergine Maria, Madre di Gesù, fateci santi”. Con tale giaculatoria, spesso concludeva le sue omelie e i suoi discorsi, fatti sempre a braccio, che preparava con puntigliosità. Non era un teologo nel senso tradizionale del termine ma quel che diceva era traboccante di sapienza biblica e scaturiva dal grande suo cuore di padre. Mi piace concludere con quanto scrive Alexandre Dumas (padre): “Fino al giorno in cui Dio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta la saggezza umana consisterà in queste due parole: attendere e sperare“.