di Ettore Sentimentale
Nel prepararci a grandi passi alla celebrazione annuale della Pasqua, non possiamo fare a meno di avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo” (Fil 2,5) che papa Francesco ha mirabilmente sintetizzato in “Misericordia et misera” (Lettera apostolica per la chiusura dell’Anno Santo Straordinario, 20 novembre 2016) proponendo ai cristiani come atteggiamento costante la “compassione”. Vorrei quindi tratteggiare alcune dinamiche bibliche-pastorali che ruotano attorno a questo tema, prendendo le mosse da un versetto della Lettera agli Ebrei, nel quale l’autore afferma che Gesù “è in grado di sentire giusta compassione” (5,2).
Scelgo questa citazione perché offre la possibilità di cogliere in profondità il “modello” della nostra compassione: Gesù, che si pone in ascolto delle richieste e delle difficoltà degli uomini. Questo esordio è fondamentale perché non enfatizza le “prerogative divine” di Gesù (quasi fosse un “superuomo” come tante volte noi diciamo: “certo che lui è sempre attento… per forza… lui è Dio!”) quanto sulla sua capacità di ascolto nei confronti di tutti gli uomini, nessuno escluso. S. Paolo dirà: “Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio… ma spogliò se stesso…“ (Fil 2,6s).
Se volessimo fare una riflessione puramente sociale, dovremmo dire che l’attenzione agli altri, oggi, sembra essersi smarrita dietro la frenesia della vita e l’invasione debordante della tecnologia digitale che obbliga a vivere sempre più rapporti virtuali e poco umanizzanti. E spesso, così facendo, l’ascolto si riduce a un incontro “formalmente standardizzato” nel quale ai nostri interlocutori difficilmente facciamo cogliere la loro unicità. Come sono lontane le parole del cantautore Franco Battiato, quando afferma: “E io avrò cura di te, perché sei un essere speciale…”!
Essere “compassionevoli” comporta prima di tutto far sentire l’altro a proprio agio, fargli scoprire la propria identità di persona unica. In un parola, entrare in empatia, non tanto per un fattore puramente psicologico quanto per “ricaduta spirituale”. La dinamica di tale stile è semplice: il nostro atteggiamento deve essere mosso dall’aver percepito la compassione – non certo sbrigativa e neppure meritata – di Gesù su di noi. In un certo senso si è calato nell’intimo della nostra esistenza rinnovandola.
In Lc 10,35 questo atteggiamento è descritto nel dettaglio: il samaritano (cioè Gesù) si prende cura di colui che è rimasto mezzo morto sul ciglio della strada. E se si leggesse il commento di Françoise Dolto (cfr., L’Évangile au risque de la psychanalyse, I, Éd. du Seuil 1977, 145-174) si scoprirebbe un aspetto interessantissimo: la “compassione” del soccorritore ha avuto come fine la totale indipendenza del “ferito”. Solo così, infatti, l’intervento compassionevole raggiunge il suo scopo. Anzi coinvolgendo altri (in questo caso il padrone della locanda) si creano rapporti nuovi, alternativi.
Mi sia permessa una piccola “variazione sul tema”. Stando all’episodio lucano testé menzionato, non so se il vero “guarito” sia il malcapitato, vittima dei briganti, o il locandiere (simbolo della comunità), sanato dalla paura di accogliere un diverso…
Penso sia utile rileggere – fra le righe del vangelo – i nostri “blocchi” mentali che paralizzano la compassione: pregiudizi, disinteresse, superficialità, complesso di perfezionismo, etc… Mentre invece “Lui si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Is 53,4). In fin dei conti, si tratta di rivedersi nei due personaggi descritti in Gv 8,1-11: “Relicti sunt duo, misera et misericordia” [Augustinus Hipponensis, In Evangelium Ioannis, 33,5 (Rimasero loro due: la misera e la misericordia)]. Come si vede il papa nel dare il titolo alla sua lettera (Misericordia et misera) ha invertito i termini rispetto alle parole di S. Agostino. Evidentemente a Francesco piace anteporre sempre la misericordia.
E noi in questo modo scopriamo di essere miseri sì, ma toccati dalla misericordia del Signore e coscienti di dover misurare gli altri con lo stesso metro…